Long Way East

Long Way East

Lungo viaggio in moto viaggio verso Est, il Long Way East che dal 17 aprile 2008 al 2 maggio ha attraversato Grecia, Turchia, Iran, Turkmenistan e Uzbekistan.

Il dettagliato racconto di Carlo

22 aprile 2008, martedì. TUTTI A TEHRAN.
Sono le cinque e mezza del pomeriggio quando il gruppo dei motociclisti entra nella sterminata capitale della Repubblica Islamica dell'Iran. Li accogliamo, Bernard ed io, con i nostri inseparabili Nazi e Mahmoud, su un lato della spianata che ospita il grande Arco Trionfale - la Torre Azadi -, porta di ingresso della città, tra la curiosità della gente, che non è solita vedere moto di tale cilindrata sulle proprie, trafficatissime, strade. Qui è il regno incontrastato delle motorette di piccola cilindrata, di fabbricazione giapponese, che si infilano dovunque ci sia uno spiraglio tra un'automobile e l'altra, alcune fanno da codazzo alle BMW , creando ulteriori problemi ai guidatori, già concentrati nella non facile impresa di seguire la strada che Mahmoud traccia con la sua Peugeot 206, verso l'albergo. Al Kowsar hotel il gruppo è atteso (tanto io quanto Bernard non avevamo alcuna prenotazione, invece), per un equivoco parrebbe che l'indomani non ci sia alcuna guida né vettura al seguito, ma è, appunto, un equivoco e la tensione si stempera rapidamente nella cena in un locale caratteristico, innaffiata di coca cola, aranciata, acqua, chè di alcol da queste parti non se ne parla proprio.

23 aprile, mercoledì. VERSO MASHHAD.
La sveglia di buon mattino è il preludio ad una tappa lunghissima - alla fine saranno 930 chilometri - che inizia con l'uscita da Teheran: un incubo! Ci vogliono due ore per lasciare alle spalle questa città dal traffico infernale, senza regole, dove vige la legge dell'arrivare per primo, i semafori sono rari, macchine e motorette azzardano manovre spericolate, le code si susseguono, l'inquinamento atmosferico crea una cappa di grigiore sopra la città, visibile dalla parte alta della stessa, quella più vicina alle montagne dove d'inverno la neve permette addirittura di praticare lo sci. Quindici milioni di persone abitano questa città, resa grigia anche dall'assenza di colore: gli uomini vestono come dovunque, ma sono le donne a contribuire con l'assoluta prevalenza del nero che ne caratterizza gli abiti. E' d'obbligo portare il velo, più o meno casto, d'abitudine nero, così come lo chador, la mantella che avvolge le donne lasciandone scoperto esclusivamente il viso, mentre nella parte inferiore spuntano pantaloni o jeans e scarpe da ginnastica. Anche le straniere sono tenute a coprirsi, quindi le compagne dei nostri motociclisti si adeguano a queste disposizioni: non ci è possibile sapere fino a che punto queste norme siano accettate dalle donne iraniane e quanto ci sia di imposizione vessatoria, anche se abbiamo motivo di dubitare che velo e chador siano frutto di una libera scelta. L'intraprendenza di Nazi permette di recuperare una video camera che Brunò ha dimenticato nella stazione di servizio dove le moto si sono rifornite di benzina, per noi incredibilmente a buon prezzo, in rapporto ai costi assurdi che la stessa ha quando arriva ai nostri distributori. Agli iraniani un rifornimento di circa 30 litri costa l'equivalente di 2 euro o poco più: impossibile non riflettere su quanto petrolieri e fisco ci guadagnino in Occidente. Finalmente fuori Tehran,la strada diventa scorrevole e le moto corrono veloci, sull'altopiano il traffico della città è solamente un pallido ricordo, mentre il deserto alla nostra destra e le montagne aride e colorite alla sinistra ci accompagnano per chilometri e chilometri, senza incontrare che rari villaggi e cittadine che la strada fa scorrere senza disturbarne la oziosa quiete. Le soste sono limitate all'esigenza di effettuare rifornimenti di carburante e di soddisfare i bisogni corporali degli avventurieri, accaldati e assetati, oltreché da qualche intoppo con la polizia locale, che Mahmoud provvede a risolvere da par suo, senza coinvolgerci. A metà percorso, le nostre guide ufficiali, Nohal e Hosein, ci suggeriscono una sosta per visitare un caravanserraglio, ritenuto essere il più antico lungo la Via della Seta, antenato delle moderne aree di sosta autostradali, dove le carovane dei mercanti trascorrevano la notte al riparo da freddo e predoni. Qualche foto, una breve visita, poi ci aspetta la via per Mashhad, ancora lontana. Un rifornimento volante per la moto di Pippo, il cui serbatoio è meno capiente degli altri, mancano ancora 125 chilometri alla meta, quando diventa buio. L'illuminazione stradale però è perfetta e arriviamo a Mashhad che sono ormai le 22 passate, senza alcuna difficoltà, i motociclisti stanchi ma soddisfatti. Una frugale cena rimediata al ristorante dell'albergo che ci ospita, pizza e panini, con birra analcolica, coca e aranciata - per me è ormai divenuta un'abitudine, bere dough, una bevanda a base di yogurth, diluito con acqua e ghiaccio -, poi tutti a riposare, la giornata è stata lunga. . .

24 aprile, giovedì. MASHHAD.
In questa che è la città santa per gli sciiti, oggi facciamo i turisti, con l'organizzazione di Nazi e Mahmoud, che ci fanno trovare un bus a disposizione, quando, intorno alle 10, rinfrancati da un sonno ristoratore, siamo pronti a visitare Mashhad. Il centro geografico e spirituale della città è raccolto intorno al recinto sacro, comprendente il mausoleo dedicato all'imam Reza - morto qui e qui seppellito - , meta di pellegrinaggio di milioni di credenti. A noi, infedeli, non è consentito accedere all'interno dei luoghi sacri, il rito del lasciare le scarpe prima di entrare in una sorta di anticamera della moschea, dove proiettano un filmato sulle bellezza di Mashhad, è l'unica concessione. A Qom, altra città santa, ero potuto liberamente entrare nella moschea evidentemente perché ero solo, in compagnia di Mahmoud; ai turisti in gruppo questo è impedito. Ci limitiamo a contemplare dall'esterno il mausoleo con la cupola dorata, la moschea con il portale dorato e la imponente cupola di porcellana blu, le madrasse - le scuole coraniche - , i minareti lanciati verso il cielo, i cortili. Immagini che dobbiamo memorizzare, dal momento che, in questo Paese di divieti, è vietato anche scattare fotografie all'interno del recinto sacro. Al museo dell'Islam invece possiamo entrare, ma nessuno è particolarmente interessato agli oggetti che vi sono raccolti: la parte dedicata alla filatelia è ricca di pezzi dai quali potrebbe venire una lezione di storia contemporanea, purtroppo non esistono didascalie illustrative. Andiamo a pranzo in un'area adibita a locali di ristorazione, distante una mezz'ora dal centro città, il locale è ben strutturato ed arredato, la cucina la migliore che abbia provato in questi giorni in Iran, il kebab locale è uno spiedone di oltre mezzo metro di lunghezza, su cui sono infilzati pezzi di carne di montone o di pollo o di bue, ben cucinati e di ottimo gusto, la panna cotta in chiusura una sciccheria apprezzata. Si torna in città, al bazar vicino il recinto sacro, qualcuno fa acquisti, in attesa del bus che ci deve riportare in albergo più d'uno compra tappeti in un negozio ben fornito, in un vicolo buio, mentre, con altri, ci infiliamo in un bazar più modesto, un mercato per locali, dove stanno sfornando pane che, con la abituale cordialità iraniana, ci offrono in dono. Le donne in nero sono ancor più opprimenti in questa città, passeggiano a gruppi, la separazione per sessi è visibile anche per le strade oltre che nei luoghi di culto, i maschi si tengono per mano, in un atteggiamento che da noi lascerebbe intendere rapporti più profondi di un'amicizia. Poi la sera, in albergo, una festa di gente del luogo, ci mostra una realtà, altrove celata, di donne in abbigliamento più libero, gonne e scarpe coi tacchi, di uomini presumibilmente consumatori di alcol e di generale disinibizione, senza il freno del controllo dell'autorità religiosa, di cui è intrisa la società iraniana.

25 aprile, venerdì. DALL'IRAN AL TURKMENISTAN.
Con l'avvicinarsi della frontiera si fanno più frequenti i posti di blocco, senza peraltro incontrare grossi ostacoli, finché, in un grosso paesone, appena imboccata la strada che ci porta a Bajgiran, valico verso il Turkmenistan, ci fermano e ci trattengono - in un'area per picnic, per motivi di sicurezza, ci dicono - , in attesa di poter disporre di un documento più leggibile di quello in nostro possesso. Non è facile trovare un Internet point, dove poter stampare tale documento, l'attesa si prolunga, ma finalmente lasciamo la folla di curiosi che ci ha circondati e riprendiamo la strada. Una strada suggestiva, che si inerpica tra montagne imponenti, non si incontrano più centri abitati, solo camion che arrivano o vanno verso la frontiera e un insolito ciclista in mountain-bike che arranca a fatica sulle pendenze, sotto un sole abbacinante e un caldo opprimente. Montagne a perdita d'occhio, panorami mozzafiato sotto un cielo azzurro da cartolina e una pazza corsa in discesa sul veicolo guidato da Hosein, alla rincorsa delle moto, ogni volta che queste, più veloci in salita, ci sfuggono. Facciamo uno spuntino prima di uscire dall'Iran, saliamo al confine superando file di camion in attesa, accompagnati dai soliti Nazi e Mahmoud, che si occupa delle formalità doganali, poi abbiamo il via libera per lasciare l'Iran. Il congedo dai nostri angeli custodi è una scena commovente. Le lacrime agli occhi di Mahmoud quando iniziano gli abbracci e i baci del commiato inducono alla commozione tutto il gruppo, sotto gli occhiali scuri gli occhi sono lucidi, un groppo in gola ci impedisce di parlare, in un silenzio assordante che il rombo dei motori delle moto si incarica infine di rompere. Duecento metri con le valigie in spalla e si arriva al posto di frontiera del Turkmenistan. E' una frontiera invalicabile, il filo spinato corre sulle montagne deserte, interrotto dalle postazioni rialzate dei militari che controllano il territorio, l'ambiente asettico e inospitale, le guardie, ragazzi giovanissimi e graduati obesi con larghi cappelli di foggia sovietica, hanno un atteggiamento freddo e distaccato, con il vizio di sputare a terra in maniera ostentata e frequente. Si presenta la nostra guida locale, il cui nome suscita l'ilarità, a stento contenuta: Merdam ci aiuta a capirci con i funzionari locali, ai quali, fra le altre cose, dobbiamo dire di non essere affetti da malattie. Siamo le uniche persone in transito, oltre i camionisti, ciononostante le pratiche burocratiche per l'ingresso delle moto, oltreché costose sono laboriose. Per noi pedoni le formalità sono invece rapide, anche se firmiamo un documento scritto in una lingua sconosciuta ed in caratteri cirillici, cosicché ci tocca aspettare ore e ore la . . . liberazione dei motociclisti, sorvegliati a vista dalle guardie di frontiera che non ci permettono eccessivi, per loro, movimenti sul piazzale antistante l'edificio, mangiando gli ultimi residui - pistacchi e dolci - degli approvvigionamenti iraniani. Finalmente, sono quasi le sette di sera, una alla volta le moto si allineano sul piazzale, pronte per raggiungere Ashgabat, la capitale. Si attraversa qualche chilometro di terra di nessuno, stipati a bordo di una navetta, guidata da un disgraziato che accelera in curva e rallenta in rettilineo: a queste latitudini gli autisti sono dei pazzi, anche se la loro bravura è fuori discussione. Poi in macchina scendiamo su Ashgabat e non riusciamo a credere ai nostri occhi, lo spettacolo della città in fondo alla strada che arriva dalla montagna è semplicemente sbalorditivo! Da lontano sembra di vedere un insieme di enormi specchi che riflettono delle luci bianche, avvicinandoci ci rendiamo conto che si tratta di palazzi e monumenti illuminati a giorno e che l'effetto specchio è dovuto alla rifrazione della luce sulle pareti marmoree che ne ricoprono la struttura. Luci dovunque, vialoni con scarso traffico, non c'è nulla fuori posto, persone pochissime, la famosa fontana che sapevamo di trovare campeggia sfavillante di luci che cambiano colore, distante, ma perfettamente visibile. L'albergo è allineato al contesto, elegante, il co-proprietario è Luigi, l'italiano che qui vive e lavora da quasi vent'anni, console onorario del nostro Paese, che qui non ha ambasciata né consolato.

26 aprile, sabato. I DUBBI DI ASHGABAT.
La luce del giorno ci mostra Ashgabat, che significa città dell'amore, nella sua magnificenza. Palazzi in marmo bianco con i tetti rossicci e le minuscole finestrelle sembrano costruite con mattoncini Lego, gli edifici pubblici, anch'essi in marmo bianco, sono dotati di ampi colonnati e di cupole dorate, fontane zampillano ad ogni angolo, statue dorate del defunto presidente Niyazov - un megalomane tra le cui opere va ricordato il cambio dei nome di giorni e mesi del calendario in nomi di membri della sua famiglia e dell'epica turkmena - e statue bronzee a rappresentare antichi guerrieri . E ancora, l'Arco della Neutralità, simile ad una navicella spaziale in rampa di lancio, sormontato da una statua in oro di Niyazov, che ruota seguendo la rotazione del sole, il monumento dedicato al Ruhnama, il libro scritto dallo stesso presidente, testo scolastico e bibbia di ogni buon turkmeno, la moschea di Azadi coi quattro minareti a ricordare che siamo in un Paese musulmano, la Piazza dell'Indipendenza dove non si può sostare perché vi si affaccia il Palazzo Presidenziale. All'orizzonte, nuovi palazzi in costruzione e le gru al lavoro. C'è anche molto verde, i progettisti (turchi, pare) hanno lavorato bene, dal punto di vista estetico la bizzarria della città non ne implica un giudizio negativo, ma... Ma la gente dov'è? Il brulicare di persone di Tehran, di Mashhad, di una qualsiasi città di ogni parte del mondo, i bambini che giocano e si avvicinano curiosi al turista, le donne velate dell'Iran, le motorette con due-tre persone di Mashhad, l'atmosfera grigia ma tuttavia viva dall'altro lato del confine: qui c'è una città spettrale, finta, artificiale, vuota di gente, che la megalomania di un alcolizzato ha trasformato in una vetrina, dietro la quale si possono sospettare misfatti che il regime vuole occultati. La visita a Nisa, importante sito archeologico, pochi chilometri fuori Ashgabat, ci consente di scoprire un'altra delle opere volute da Niyazov: una passeggiata tra le montagne che fiancheggiano la capitale, lunga una trentina di chilometri, che, una volta l'anno, i dignitari della corte dovevano percorrere a piedi, per recarsi all'appuntamento col presidente che li attendeva, comodamente trasportato in elicottero. Al mercato di Tolkuchka, appena fuori città, si respira finalmente un'aria meno artefatta. Qui torna ad essere visibile la gente, autobus sgangherati scaricano donne che indossano i tradizionali, sgargianti abiti colorati, lunghi fino alle caviglie, i tratti somatici tradiscono le influenze del vicino Oriente, c'è ogni genere di prodotto, dal cibo ai tappeti, dall'abbigliamento ai gioielli, il commercio è spesso delegato alle donne, il cui cicaleccio sotto la calura ne accompagna il maneggio di pacchi di manat, la moneta locale. Si compra a prezzi per noi favorevoli, le foto sono d'obbligo, ci chiediamo dove viva questa gente, certo è difficile immaginare queste donne e questi uomini dietro le facciate dei palazzi di Ashgabat. Si sta bene in Turkmenistan? Nessuno di noi è in grado di darsi una risposta, un'oretta sul bordo della piscina dell'hotel Nissa a colloquio col signor Fontanabona non dissipa i dubbi, forse quella metà della popolazione impiegata nell'apparato statale, dove regna la corruzione pressoché istituzionalizzata, gode di un certo benessere, all'altra metà i benefici dei proventi della vendita del gas naturale di cui il Turkmenistan è grande produttore arrivano col contagocce. La sera chiudiamo la parentesi con un'altra cena all'italiana e il relativo conto: 40 dollari a testa, con quella di ieri sera fanno 80 dollari, Ricardo sbotta in un commento sarcastico, che suscita la reazione piccata del nostro anfitrione piacentino-turkmeno. Come sono lontani Nazi e Mahmoud, che, dopo averci accompagnati e rifocillati, l'altra sera hanno rifiutato il denaro che gli abbiamo offerto, in nome dell'amicizia e del dovere di ospitalità!

27 aprile, domenica. DESERTO DEL KARAKUM.
La giornata inizia all'alba, alle 5,45 usciamo da Ashgabat per affrontare il grosso punto interrogativo del deserto del Karakum: ce la faremo ad attraversare i quasi seicento chilometri che ci separano dalla frontiera con l'Uzbekistan, alla quale dobbiamo arrivare prima che chiuda, alle sei di sera? Capiamo subito che Ashgabat è un corpo estraneo, la sua opulenza stride con la povertà che si percepisce subito fuori città. Qui c'è nuovamente la gente, villaggi, radi, lungo la strada che si immerge nel deserto, una pompa di benzina, dove siamo oggetto della curiosità degli abitanti, qualche yurta, le capanne tradizionali, mandrie di cammelli battriani, un incrocio tra cammello e dromedario, con una sola gobba, che non si spaventano al passaggio dei veicoli, tanto che ne troviamo anche carcasse lungo il nastro d'asfalto che corre da sud a nord del Paese. La prima parte del cammino è veloce, facciamo circa trecento chilometri in poco più di tre ore, ora il sole splende alto e caldo tra le dune di sabbia e gli arbusti che dominano il paesaggio circostante. Le difficoltà però sono in agguato. Si comincia con sabbia portata dal vento a coprire parte dell'asfalto, cominciano le scivolate, senza conseguenze, delle moto, Albano, Ricardo, Beppe assaggiano la sabbia, poi lavori in corso costringono a continue deviazioni della sede stradale, il manto si fa sempre più cosparso di buche tra le quali far a zig-zag, rallentando la velocità. Bisogna procedere cautamente, ma quando le buche divengono delle vere e proprie voragini, più o meno riempite di sabbia, la circospezione non basta più, si va a passo d'uomo, il vento e l'incrocio con camion che procedono lentissimi in direzione contraria provocano nuvole di sabbia dentro cui vediamo scomparire moto e passeggeri, che poi riemergono, le donne, a piedi, goffe marionette dentro divise palesemente fuori luogo in questi frangenti. La cadute si moltiplicano, è uno tributo da pagare al deserto, quando ci sono passaggi più ostici qualcuno scende ad indicare la striscia di strada da seguire a chi viene dopo, quando sembra che si possa procedere più spediti c'è sempre un nuovo tratto sconnesso a riportarci alla realtà. Il veicolo sul quale viaggiamo fora un pneumatico, la sostituzione non è problematica, ma la pressione è scarsa e richiede un ulteriore intervento, impossibile a farsi sul posto, cosicché ci tocca tornare sui nostri passi, alla ricerca di un villaggio passato da pochi chilometri. Una voragine affrontata a tutta andatura, ci finiamo dentro in un turbine di sabbia, in un attimo anche il parabrezza ne è ricoperto, l'autista non perde il controllo del mezzo e ne usciamo senza danni, ma al villaggio non sono in grado di aiutarci e dobbiamo proseguire con la gomma semisgonfia, finché non incontriamo un camionista fermo sul bordo della strada a soccorrerci: la disponibilità di questa gente è impressionante, in cambio di un aiuto non chiedono che un sorriso! Riprendiamo i motociclisti, ormai fuori dalle ...sabbie mobili, poco prima della cittadina di Kunia Urgenc, sono quasi le quattro del pomeriggio, siamo in viaggio da dieci ore, andiamo alla frontiera prima che chiuda. Qui il clima è più disteso rispetto a quando siamo entrati in Turkmenistan, i funzionari meno rigidi, il confine delimitato da una cancellata sgangherata, c'è del viavai di pendolari, le borse mie e di Bernard vengono trasportate su un carretto da un vecchietto trasandato, il doganiere che esamina il mio passaporto si scioglie nel sorriso quando provo ad intavolare un discorso sull'Italia, il calcio come elemento di aggregazione, la lingua in cui ci esprimiamo un inglese grezzo e approssimativo. Come al solito, per passare da un Paese all'altro i pedoni non fanno grandi fatiche, di più i bikers, le cui moto non mancano di suscitare la curiosità dei ragazzi in servizio, che scattano foto, vicino o a cavallo di quegli imponenti bolidi, così desueti in queste contrade, mentre un graduato cerca di salvare la forma e li riprende a muso duro. Ci toccano le solite formalità, compresa la compilazione di due copie - uguali, si suppone - di un documento nel quale dichiariamo quello che abbiamo con noi, denaro, apparecchiature fotografiche, informatiche, telefoniche, valigie (in teoria anche quel che c'è dentro), una copia viene timbrata e restituita a noi, ci servirà all'uscita dall'Uzbekistan per dimostrare che non abbiamo fatto commercio. Si presenta la nuova guida, Azamat, un ragazzo il cui italiano è purtroppo approssimativo, il suo approccio tradisce un certo nervosismo, forse è conscio di quel che lo attende nei prossimi giorni. Alle sette di sera entriamo in Uzbekistan, dall'Italia arriva la notizia che il Toro ha preso quattro gol dalla Roma in mezz'ora, in meno di un'ora siamo a Nukus, capoluogo del Karakalpakstan, la più occidentale e la più isolata delle repubbliche uzbeke, al di fuori dei circuiti turistici classici. Per concludere in bellezza una giornata sfiancante, arriviamo all'hotel, scarichiamo i bagagli, ci avviamo a prendere possesso delle nostre stanze, allarmati dalla desolazione della struttura, soltanto a questo punto ci rendiamo conto di aver sbagliato destinazione, complice il fatto che qui tutte le scritte sono in caratteri cirillici: l'albergo si chiama Tashkent, la prenotazione è al Nukus! Il Nukus, poco distante, una costruzione di impronta sovietica, non è molto meglio dal punto di vista del confort, l'agognato bar è chiuso, il personale freddo, manca l'ascensore, le stanze lasciano a desiderare, i bagni decrepiti con la tazza del cesso a un palmo da terra. La cena in un locale adiacente, di fresca inaugurazione, con personale gentile e disponibile, chiude finalmente la lunga domenica ed apre la settimana della Via della Seta.

28 aprile, lunedì. KHIVA.
La notte ha suggerito ad alcuni del gruppo di mantener fede al programma iniziale, che prevedeva per oggi una puntata verso quel che resta del mar d'Aral, un tempo quarto lago più vasto della terra e fonte di benessere per la regione, ora ridotto nelle sue dimensioni da una dissennata pianificazione che i sovietici imposero negli anni '60-'80, per favorire la produzione di cotone. L'acqua del fiume Amu-Darya, che scorre da est ad ovest, fino ad allora immissario del mar d'Aral, venne dirottata in canali artificiali, fino a privare il lago dell'acqua necessaria per la sua sopravvivenza: una catastrofe ecologica, di cui restano tracce visibili nei barconi arenati a chilometri dalle acque più vicine, meta dei nostri avventurosi compagni di viaggio. Mentre Albano, Pippo e Mariella, Brunò e Bernard vanno verso nord, il resto della compagnia prende la strada verso est, in direzione Khiva, tra campi di cotone e piante da frutta, nella piana bagnata dal fiume Amu-Darya e dai canali che da esso si diramano. Il cambio di euro in sum, la moneta locale, ci costringe ad andarcene con pacchi di banconote dal valore irrisorio, per 1 euro quattro banconote da 500 sum ciascuna, per 100 euro le banconote richiedono uno zainetto, un fardello in più. Il caldo è costante, la prima parte del cammino è caratterizzata da dispute tra Azamat e l'autista del mezzo su cui viaggiamo Bernard ed io, da una parte, e il gruppo dei bikers, dotato di navigatore, dall'altra; poi, appurato che nessuno conosce le strade, i motociclisti decidono di fare a modo loro, il percorso che seguiamo non è forse il più confortevole - si attraversa il fiume su un ponte di fortuna - , ma ci porta a Khiva, dove si arriva intorno alle due, accolti da un rinfresco con the e pasticcini nella hall dell'albergo, che si affaccia sulla piazza davanti la porta ovest dell'Ichon-Qala, la città fortezza, museo a cielo aperto. Una pausa per il pranzo, in un locale carino, dalle pareti dipinte di verde, le solite zuppe saporite e birra Sarbast, poi Azamat accompagna i superstiti nella visita dell'Ichon-Qala, le cui mura in fango che anticamente proteggevano dai nemici ora circondano un'area in cui la conservazione dei monumenti si abbina al loro sfruttamento a fini commerciali - un albergo all'interno di una madrassa, negozi sparsi per i vicoli. La presenza del turismo, dopo una settimana di quasi isolamento, ci riporta a sentire parlare lingue famigliari, vi sono europei, nordamericani, giapponesi; ciononostante l'atmosfera è rilassata e ovattata, in un silenzio rotto dal brusio della gente, locali a contrattare coi turisti il prezzo di improbabili copricapi, oggetti intarsiati nel legno, stole di seta, gli immancabili tappeti. All'interno delle mura, la Kuhna Ark, la cittadella fortificata, residenza dei sovrani di Khiva, con la moschea all'aperto, la sala del trono, la prigione, l'harem; ancora madrasse, le scuole coraniche, il minareto incompiuto, rivestito di piastrelle azzurre, mausolei dedicati a personaggi famosi, i cui nomi scordiamo un attimo dopo averli sentiti pronunciare. Il gruppo si ricompone quando ormai le ombre della notte sono scese sulla fortezza, i reduci da Moynaq sono soddisfatti della diversione - seicento chilometri di strada - , raccontano di una regione grigia e depressa, i cui problemi sono drammaticamente evidenti. Una caduta di Pippo e Mariella, la cui moto scivola sulla sabbia mentre sta entrando nel cortile dell'albergo, una cenetta rimediata all'ultimo momento, giacché nei ristoranti o non c'è posto o non c'è cibo, sono il finale di una tranquilla giornata.

29 aprile, martedì. A BUKHARA.
E' stato deciso, disattendendo i suggerimenti della guida, di partire intorno alle dieci, quindi ne approfitto per un breve ulteriore giro per la città, che a quest'ora è pressoché deserta. Salgo sul minareto di Islom Hoja, 118 scalini ripidissimi, in parte nella penombra, poche sono le finestrelle dalle quali penetra la luce del sole, dalla cima si domina su tutta la città e i dintorni, la discesa è più impervia della salita, la ripidità dei gradini, stretti stretti, il buio, lo zainetto in spalla, richiedono attenzione e cautela. Quando si lascia Khiva sono ormai quasi le dieci e mezza, c'è ancora da fare rifornimento, le solite traversie, una pompa per undici moto, bisogna calcolare i litri da immettere nel serbatoio e stare attenti a che non venga messa più benzina di quella richiesta, la pavimentazione dell'area di servizio non è ottimale, la moto sfugge di mano a Tonino e si abbatte su un lato, facendo perdere l'aplomb al proprietario, le cui invettive si abbattono sulla strada e sul paese intero. L'inizio della tappa è tra campi in cui si sta seminando il cotone, la pianura è resa fertile dall'Amu-Darya e da un canale d'irrigazione che scorre a fianco della strada, qui la portata del fiume è ancora elevata e il letto imponente, sembra incredibile che sia destinato a perdersi nel nulla. Un ponte la cui sede stradale è condivisa da auto e treni ci obbliga ad una sosta, in attesa che transiti un lungo convoglio merci, poi è il deserto rosso del Kyzylkum ad attenderci, con chilometri e chilometri di steppa con arbusti in mezzo alla sabbia, filari di canne basse a protezione della strada dalla sabbia sollevata dal vento. Invano mi guardo attorno alla ricerca di un essere vivente, della lucertola gigante descritta da Azamat nella sua presentazione della fauna uzbeka non vi è traccia, pare disdegni i dintorni della strada asfaltata che stiamo percorrendo. Alle due facciamo sosta in un locale per camionisti, nel mezzo del nulla che ci circonda. E' qui che l'ospitalità di questi popoli si manifesta per l'ennesima volta, sotto forma dell'invito che un camionista intento a pranzare ai tipici tavolini di questa parte dell'Asia ci rivolge di fargli compagnia davanti ad un piatto di pesce arrosto. Si tratta presumibilmente di una carpa locale, di grossa dimensione e di polpa tenera e gustosa, ben cucinata - non ci chiediamo se siano rispettati standard occidentali per la cottura - , alcuni di noi non si fanno pregare nell'accettare l'invito, poi l'appetito ha la meglio e anche Ricardo ordina, per tutti, due chili di pesce (qui si va a chili, non a porzioni). Non riusciamo a dialogare con il nuovo amico, ma a me questo pranzetto in mezzo al Kyzylkum , a base di pesce, resterà impresso per la spontaneità e la semplicità, oltreché per la qualità. Con la pancia piena, offerto il pasto al camionista - una cifra irrisoria - , riprendiamo la via per Bukhara, su una strada sempre più malridotta, con continui lavori in corso su un asfalto che l'eccezionale sbalzo termico tra un'estate in cui le temperature arrivano a 55° e un inverno da -30° deteriora irrimediabilmente. Nonostante tutto, le moto vanno veloci e noi in macchina di conseguenza, anche questo autista, dall'aspetto dimesso e pacioso, affronta la strada a velocità sostenuta, i sorpassi ci fanno ...stringere le chiappe a tal punto che, come sostiene Bernard, con un'oliva potremmo farci un litro di olio! Ma oggi non è la giornata di Tonino, la cui BMW fora la gomma posteriore, nel mezzo del deserto, in un tratto dove i lavori in corso già ammassano escavatrici e mezzi e qualche addetto. Con grande solerzia, il gruppo dei bikers si mette al lavoro, riparare una gomma su una moto non è operazione semplice e la calura non scherza. Anche la nostra macchina ha una gomma a terra, la sostituzione è più rapida, con l'aiuto degli operai che spontaneamente si prestano, si sostituisce la ruota forata, i due gruppi a contatto di gomito lavorano alacremente. Ci vuole più di mezz'ora prima che si possa ripartire, prendendo a bordo della macchina moglie e bagagli di Tonino, ma i guai non sono finiti. Dopo una sosta per rifiatare presso una postazione di ristoro, è la moto di Claudio a fare le bizze e a non volerne sapere di ripartire: si concretizza un'ipotesi, remota, presa in considerazione la vigilia della partenza dall'Italia, allorché, nel corso di un incontro presso il concessionario BMW, questi diede le istruzioni ai partenti sul da farsi qualora si fosse verificato un determinato problema di accensione. Sulla base di quelle istruzioni, la moto in panne viene collegata ad una gemella - la stessa cosa andrà fatta d'ora in poi ad ogni ripartenza - , qualche intoppo, poi si torna in sella e in macchina, fino a Bukhara non ci sono più inconvenienti, soltanto chilometri di asfalto più o meno sconnesso. A Bukhara si arriva intorno alle otto di sera, accolti al Sultan hotel dalle luci che si spengono in tutta la zona circostante, compreso il ristorante all'aperto dove ceniamo, forzatamente, a lume di candela. Intanto si è materializzata Komila, la giovane moglie di Azamat, lei parla l'italiano correntemente, fa la guida da tempo, sta accompagnando un gruppo di italiani, ci aiuta a sistemarci, trovando le camere mancanti in una struttura vicina. Infine anche la luce torna sulla notte di Bukhara e sulla parata di BMW parcheggiate sulla via.

30 aprile, mercoledì. ACQUISTI E INCONTRI A BUKHARA.
Bukhara è, al pari di Khiva e di Samarcanda, tra i siti che l'Unesco ha dichiarato Patrimonio Mondiale. Vecchia di duemila anni, ha mantenuto quasi intatto il tessuto urbano, all'interno del quale moschee e madrasse, minareti e mausolei convivono con le abitazioni private e le strutture alberghiere. L'albergo è in posizione centrale, sulla piazza di fronte, al cui centro c'è una vasca d'acqua, contornata di gelsi, si affacciano edifici classici nelle loro geometrie e decorazioni: la madrassa di Nodir Devon Begi, in origine un caravanserraglio, talmente bello da essere scambiato per una madrassa dal khan, per non contraddire il quale gli venne data quella destinazione d'uso, sul lato opposto una khanaka, costruito per dare asilo ai dervisci che un tempo percorrevano l'Asia nelle loro peregrinazioni alla ricerca di seguaci. La passeggiata turistica ci porta attraverso un dedalo di viuzze e bazar coperti, dove sono esposti prodotti tipici, talora fabbricati sul posto da maestri artigiani e venduti a prezzi allettanti, non mancano i tappeti e le relative varianti - kilim, suzani - , di cui si fa incetta, mentre Azamat guida un gruppetto alla ricerca degli edifici degni di una visita. Sorseggiamo un vino bianco uzbeko, con pistacchi e il caratteristico pane appena sfornato, come aperitivo, nell'ennesimo negozio ricavato da una stanzetta, situata all'interno di una madrassa che ha ormai perso la vocazione originale. Tra la moschea più antica dell'Asia centrale e il museo di tappeti al suo interno, la madrassa più antica dell'Asia centrale, una delle poche non restaurate, il minareto Kalon, a suo tempo l'edificio più alto dell'Asia centrale - tutto in questa città è definito superlativo - , incontriamo un turista, a modo suo incredibile. Jumber Lezhava viene dalla Georgia, ha settant'anni, un passato da docente di cibernetica, un presente da giramondo in bici, quasi tutti i Paesi del mondo sul diario di viaggio, un futuro come ospite all'inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino, la città verso la quale si sta dirigendo, dove conta di arrivare a inizio agosto. Lo attorniamo, incuriositi; lui, gentile, ci racconta di sé e del suo vagabondaggio, suscitando esclamazioni di stupore e ammirazione. E' in viaggio colla sua mountain bike da circa dieci anni, la bandierina del suo Paese in primo piano, un abbigliamento da ciclista d'altri tempi, nei borsoni tutta la sua vita, la tenda, il fornelletto da cucina, la planimetria del globo sulla quale è tracciato il percorso che lo ha portato ad entrare nel Guinness dei Primati. Da oggi sull'attacco del manubrio della Cannondale fa bella mostra un adesivo del Toro Club Poirino Granata! La sosta per uno spuntino si trasforma in un pranzo ( il panino non fa parte della cultura gastronomica dell'Asia centrale), quindi la visita all'Ark, la cittadella regale risalente al V secolo di fronte alla quale si erge, in stridente contrasto, una torre dell'acqua di epoca sovietica, ammasso di ferraglia ormai in disuso e di corsa, in taxi, a vedere il Char Minar - quattro minareti - , grazioso insieme di quattro torri colle solite cupole azzurre, nel cuore della città vecchia, quella dove vive la gente comune e le strade sono dissestate e i bimbi scorrazzano liberi di giocare e di rincorrersi nei vicoli. La cena nel cortile interno di una bella casa ci permette di fare conoscenza con una coppia di italiani, torinesi, insegnanti di lingue all'università di Tashkent e di Samarcanda, che raccontano della loro esperienza in una realtà così lontana. Da anni vivono in Uzbekistan, tra i loro allievi ci sono tutti quelli che ora fanno le guide, compresa Komila, una delle migliori; la vita qui non presenta le attrattive del mondo occidentale, le occasioni di divertimento sono ben più rare, il tenore di vita della gente non permette di soddisfare bisogni che non siano quelli primari. Benché qui possano considerarsi dei privilegiati, l'Italia e il relativo benessere restano nei loro sogni, amerebbero ritornarvi, ma il reintegrasi nel mondo del lavoro, dopo anni di assenza, ritengono possa costituire un ostacolo non indifferente al rientro e si limitano a trascorrere le vacanze scolastiche in Europa. La cena è gradevole, l'ambiente suggestivo, la padrona di casa illustra l'arredamento di una stanza-museo, con dovizia di tappeti, suzani, oggetti antichi e pezzi di antiquariato: la presenza della stella di David dimostra la presenza nella città di una comunità ebraica, tuttora attiva. Si fa tardi con una bottiglia di vodka e quattro chiacchiere nel locale sulla piazzetta di fronte all'albergo.

1 maggio, giovedì. SAMARCANDA!
Nella notte un incendio in una vicina banca non disturba il sonno, alle sette e mezza siamo pronti a partire, la meta agognata è prossima. Qualche chilometro fuori Bukhara raggiungiamo il nostro eroe, il ciclista georgiano, alle prese con raffiche di vento che ne rallentano l'andatura e accentuano la fatica; ci fermiamo, le ultime foto con lui e poi il definitivo congedo, pacche sulle spalle e un briciolo di invidia. E' il Primo Maggio, in quasi tutto il mondo la festa dei Lavoratori, in Uzbekistan no: bizzarrie inspiegabili, qui come in Turkmenistan, se non si riflette sui regimi che governano questi Stati nati dalla disgregazione dell'Unione Sovietica, eredi del peggio del cosiddetto socialismo reale e seguaci del peggior liberismo, impregnati di nepotismo e condotti da moderni satrapi spinti da manie di grandezza e timorosi di ogni forma di dissenso. La strada scorre rapida, divisa in due carreggiate da un muretto in cemento alto circa mezzo metro, di tanto in tanto una breccia per facilitare l'attraversamento dei pedoni, ai lati campi coltivati a cotone, donne e uomini al lavoro, asini ad ogni angolo, mai visti così numerosi, evidentemente utilizzati nel lavoro dei campi, donne anziane in abiti tradizionali colorati, le più giovani vestite all'occidentale. Bernard ed io scattiamo foto su foto, nessun particolare interessante lungo il cammino ci sfugge, vorremmo registrare tutto quanto scivola attorno a noi, scene di vita quotidiana, la costante della curiosità suscitata dal passaggio delle undici moto negli occhi e nei saluti della gente, affascinata da un avvenimento inconsueto. In tarda mattinata, un attimo di deconcentrazione provoca un piccolo incidente tra due delle moto. Beppe si rende conto troppo tardi che davanti a lui Claudio si ferma ad un inutile semaforo, nascosto sotto un ponte, ne sperona la moto provocandone la caduta, senza conseguenze per i passeggeri e lievi danni al mezzo. La polizia però è in agguato, interviene, nel frattempo si è radunata la solita piccola folla di curiosi attorno alle moto, ci fanno capire che con qualche banconota pregiata la ventilata minaccia di trattenerci in quella sperduta postazione per accertamenti diventerebbe nulla più che un rituale dovuto. 20 dollari e l'esortazione a non far parola di quanto successo, poi via verso la meta. All'una siamo finalmente nella mitica città di Samarcanda, un nome che evoca miti e leggende, porta di accesso ad un Oriente lontano, Marco Polo e i suoi viaggi, la Via della Seta, Roberto Vecchioni e il suo cavallo che corre, corre... La nostra corsa si ferma davanti alla statua di Amur Tamir (per noi Tamerlano , all'ingresso della città, dove, in preda all'eccitazione, scattiamo le prime foto-ricordo, i motociclisti vanno anche al mausoleo di Tamerlano, prima di dirigerci al Central Samarkand hotel. Il tempo di sistemarci, noi, i bagagli, le moto, un giornalista locale ci aspetta per domande sull'avventura e qualche fotografia, poi il solito spuntino che si trasforma in un'interminabile attesa dello shashlyk, il tradizionale spiedino di carne arrostita sulla brace, e finalmente via a vedere le bellezze della città, con l'aiuto di Feroza, una guida locale che si arrangia con l'italiano. Il mausoleo di Guri Amir che custodisce i resti di Tamerlano in una cripta inaccessibile al pubblico, è ornato di una cupola azzurra che si distingue per le nervature verticali, che la rendono originale in un contesto dove l'originalità scarseggia. Sul Registan, la piazza per eccellenza di Samarcanda, si concentra il viavai dei turisti che visitano la città, per i quali vengono organizzati spettacoli di danza e di incantatori di serpenti, mentre le madrasse che abbracciano l'ampio spazio brulicante di visitatori attraggono col fascino delle ceramiche azzurre di cui sono rivestite le cupole. Con Bernard e Brunò e una mancia di 5 dollari a testa ad un guardiano disponibile saliamo sulla cima di un minareto dal quale la vista del Registan sottostante è ancor più suggestiva di quanto non lo sia dal basso. Scopriremo poi che la ragione del divieto di salita sul minareto sta nella instabilità della costruzione, sulla quale sono in corso operazioni per migliorarne appunto la stabilità, minata dai secoli e dai terremoti, frequenti in queste zone dell'Asia. Sul Registan ci intratteniamo fin quando le prime ombre della sera si allungano sui monumenti, tanto imponenti nelle loro geometrie perfette quanto eleganti nelle linee armoniose; si torna in hotel, infine la cena in un bel ristorante, aiutati a scegliere il menu da Komila, cortese anche nel suo apostrofarci coll'epiteto ragazzi, non esattamente calzante vista l'età media dei commensali. Shurpa, la minestra, shashlyk, il kebab di montone, pollo, manzo, insalata con gli immancabili cetrioli, birra, vino e il finale con vodka, a suggellare un'allegria generale per il raggiungimento dell'obiettivo. Anche se si comincia a pensare al ritorno.

2 maggio, venerdì. ADDIO A SAMARCANDA!
La mattinata è dedicata a vedere le ultime bellezze della città, la moschea di Bibi Khanym, la moglie di Tamerlano, al cui atteggiamento sconveniente - un bacio su una guancia ricevuto da un uomo diverso dal marito - si deve, secondo la leggenda, l'imposizione del velo nel mondo islamico. Tra parentesi, si dice che la sorte dell'uomo protagonista della vicenda galeotta fu ben peggiore: pagò la sua sfrontatezza con la vita. Nel cortile interno della moschea un enorme leggio in marmo si narra servisse al muezzin che dall'alto del minareto leggeva il Corano adagiato sul leggio, qualche metro più in basso: spesso i confini tra realtà e leggenda sono labili, soprattutto quando si tratta di narrazioni tramandate per via orale. Il bazar è il consueto miscuglio di genti, donne in abiti variopinti e uomini, giovani e anziani dalle fluenti barbe bianche e il capo cinto da turbanti immacolati, i lineamenti caratteristici delle popolazioni dell'Oriente e i raccapriccianti denti foderati in oro, un vezzo diffuso in Asia centrale, di dubbio gusto estetico ma ritenuto status symbol. In mezzo a spezie di ogni genere, dolci e pane, frutta e verdura, scarpette di seta e suzani a buon prezzo,incrociamo sguardi reciprocamente curiosi, mai diffidenti né ostili, un'umanità che in questi mercati riassume tutte le caratteristiche delle popolazioni locali. All'affascinante Shai-I-Zinda, un complesso di tombe che si erge nelle vicinanze del bazar, frequentato da pellegrini oltreché da turisti, si conclude la nostra visita a Samarcanda, a mezzogiorno le camere in hotel devono essere lasciate, nel primo pomeriggio siamo sulla via che ci porterà a Tashkent, capitale dell'Uzbekistan. Si parte sotto un cielo nuvoloso, non ci siamo abituati, la strada è finalmente priva di difficoltà, l'asfalto in buone condizioni, la pianura attraversata è fertile, si percepisce una certa operosità, carretti trainati da asini richiedono attenzione specie quando deviano dal lato destro della carreggiata per passare sull'altra corsia, sulla destra si scorgono i primi contrafforti delle montagne che si intuiscono incombenti sulla via verso Pamir, porta di accesso alla Cina. Superiamo una suggestiva catena montuosa, in cima alla quale venditori di miele attendono il passaggio di improbabili acquirenti, poi dobbiamo abbandonare la strada principale, per evitare di trovarci alla frontiera, invalicabile, col Kazakistan, un subdolo prodotto dell'indipendenza dall'URSS di queste repubbliche confinanti ma tutt'altro che amiche. Ancora immagini singolari, il vecchietto dal tipico copricapo uzbeko a dorso di asino che effettua un'inversione a U, la famigliola che aspetta lo sgangheratissimo autobus, gli addetti alla manutenzione della strada che interrompono l'attività al passaggio delle rombanti BMW, trattori a tre quote e ragazzini felici che fanno tuffi dalle paratie lungo un canale di irrigazione, venditori di fragole ai bordi della strada, infine il cartello ci segnala che siamo a Tashkent. La città è ordinata, vivace, grandi viali, traffico accettabile, non fatichiamo a raggiungere l'albergo. Non siamo alloggiati all'Uzbekistan hotel, come previsto, ma il Grand Orzu è accogliente, minuscolo, un piccolo cortile dove parcheggiare le moto, una piccola piscina, una postazione internet dalla quale, districandomi a malapena col cirillico in cui è impostato il sito, aggiorno finalmente il blog, dopo giorni di blackout forzato. Parte dei motociclisti si trattiene in albergo per una riunione movimentata con lo spedizioniere al quale verranno affidate le moto per essere riportate in Italia, altri vanno al ristorante, dove, a gruppo al completo, si cena nella penombra, tra la preoccupazione generale per le modalità con le quali dovranno essere gestite le moto per la imminente spedizione. L'ultima occupazione della serata è fotocopiare i documenti che lo spedizioniere ha richiesto per domattina.

3 maggio, sabato. FINE!
E' l'ultimo giorno in Uzbekistan, si formano due gruppi, i guidatori si occupano delle moto, che verranno portate in aeroporto, Bernard ed io, in compagnia delle signore, ci dedichiamo alla visita della città. Ci guida Azamat, in questi giorni oggetto del dileggio di buona parte della comitiva, oggi esprime il meglio di sé nell'individuare i luoghi più significativi dove dirigerci e nell'illustrarcene le caratteristiche, sia pure in inglese. Una moschea, una madrassa, le cupole azzurre che risplendono sotto il sole cocente, in un museo ammiriamo il Corano di Osman, ritenuto il più antico del mondo, un enorme libro rivestito in pelle di daino, conservato in una teca di cristallo, oggetto di devozione da parte dei fedeli. In un'atmosfera da ultimo giorno di scuola, Bernard dapprima si diletta a fotografare, in particolare un gruppo di vecchietti in abito da festa che si raduna per la foto, grandi sorrisi e denti d'oro in bella mostra, poi aiuta a ripulire l'angolo della piazza sottostante un frondoso gelso dalle more bianche spappolate a terra. A bordo di auto private adibite a taxi (abusivi, ma diffusissimi), andiamo al bazar Chorsu, immensa area, solo parzialmente coperta, dove si trova un mercato agricolo che raccoglie una varietà di merci inverosimile: uno spazio enorme è destinato alle spezie, dai cui mucchi colorati si sprigiona un afrore che pervade la struttura, un altro settore è occupato da commercianti coreani che espongono montagne di insalate pronte, l'uva passa della valle di Fergana venduta da anziane donne in abiti colorati vale un acquisto, le forme di pane, i ravanelli giganti, un miscuglio di genti, occhi a mandorla e volti caucasici, matrioske sovietiche e filiformi bionde russe. Sotto il sole il caldo del mezzogiorno è torrido, ma l'ambiente è spettacolare e impregnato di umanità, è un peccato non potervi dedicare più tempo. Uno spuntino in un triste self-service, una visita al museo delle arti applicate, una corsa in metropolitana, il parco con la statua di Tamerlano a cavallo, una passeggiata sulla via chiamata Broadway, un tempo cuore pulsante della città ora semplice e banale area pedonale. Bernard ed io ci separiamo dal resto del gruppo per trattenerci il più possibile nel centro della città, per apprezzarne l'atmosfera placida e rilassata, contrattare gli ultimi acquisti con gli ultimi sum rimasti in tasca, scambiare gli ultimi indirizzi e-mail con studentesse sorridenti, goderci l'ultima fresca Sarbast ai tavolini di un bar sulla strada, fare gli ultimi apprezzamenti in italiano triviale con l'uzbeko comprensivo che ci accompagna all'albergo. Qui ritroviamo i bikers, ormai appiedati, le loro fedeli compagne di viaggio sono in un deposito in aeroporto, pronte alla partenza, le difficoltà prospettate la vigilia sono svanite, lo spedizioniere, ieri sera uno spauracchio, ora è diventato un amicone, tanto che si trattiene a cena con noi. Chi si fa un breve sonnellino, chi aspetta l'ora della partenza verso l'aeroporto conversando ai tavoli, alle due ci congediamo da Ricardo, che resta a Tashkent fino a martedì, si va in aeroporto, Azamat ci accompagna fino all'ingresso prima di lasciarci, le formalità doganali, qualche problema col peso eccessivo di alcune valigie, perdiamo Bernard che va a San Pietroburgo e poi a Parigi, alle nove di mattina - ormai è domenica - siamo a Mosca, il congedo da Brunò che va a Madrid, il volo per Milano, uno alla volta ci salutiamo tutti. Prima di sera, l'avventura è davvero finita, quando entro in casa il Toro ha battuto il Napoli! (Carlo).

Carlo ha descritto anche un bel tragitto nei grandi parchi della Tanzania.

DIARIO DI VIAGGIO COLLETTIVO (Gli SMS giornalieri)

17 aprile 2008
Oggi si parte e diamo aria hai nostri Boxer. E' tutto pronto: visti, prenotazioni alberghiere, traghetto, bagagli ed aereo per il ritorno.
- 7,15: appuntamento a Marene (CN) tra: Carlina e Claudio, Rosalba e Tonino, Ricardo, Lella e Pippo.
- 8,00: ci aspettano al casello di Asti: Albano, Bruno', Mario, Engenio. Ci accompagnano fino ad Ancona la Fata e il Mago. Naturalmente siamo tutti benzati e colazionati. Circa 600 km ci separano da Ancona dove ci imbarcheremo per Igoumenitsa. Tre equipaggi sono gia partiti il 12 aprile e sono: Rossella e Beppe, Maurizio, Armando. Con loro ci incontreremo a Erzurum il 20 aprile. Ci raggiungeranno a Teheran in aereo il 22 aprile: Bernard, Carlo. La tappa di domani è tutta in autostrada ma come si dice: chi ben comincia è a metà dell'opera.(Pippo).
- 09,16 Asti: il gruppo si è formato. Giornata un po' grigia ma il morale è alle stelle. (Pippo)
- 10,40 Bologna: pausa caffè e marcatura del territorio. (Mago e Pippo).
- 16,45 Ancona: dopo 580 km siamo ad Ancona e ci imbarchiamo per la Grecia. Il meteo è stato clemente nonostante le cattive previsioni. Il Gruppo è compatto, veloce e ansioso di cominciare la nostra avventura. (Pippo & C.).

18 aprile 2008
- 18,04: Alessandropoli: Percorsi km 670. La Grecia è veramente larga, non finiva mai... Siamo a pochi km dalla Turchia, domani attraverseremo il ponte sul sul Bosforo, entreremo in Asia e sarà tutta un'altra storia. (Pippo)
- 21,30: l gruppo compatto, unito e felicemente arrivato saluta tutti! (Il gruppo).

19 aprile 2008
- 09,12: Siamo al confine Turco con qualche problemino tecnico. (Pippo)
- 20,30: Oggi 770 km. La Turchia ci stupisce. Siamo entrati in Asia con l'emozione del passaggio sul ponte che attraversa il Bosforo, ed ora ad Ankara. Qui tutto OK, ci prepariamo per la cena. (Pippo).

20 aprile 2008
- 21,00: Giornata splendida, partiti da Ankara abbiamo fatto 868 Km quasi tutti di strada normale ma bella, viaggiando in buona parte su un altopiano con quote tra 1.100 e 2.200 m.
Abbiamo attraversato luoghi montani di incredibile bellezza e siamo giunti infine ad Erzorum totalizzando 2.800 km dalla partenza. Domani arriviamo in Iran e speriamo che alla frontiera vada tutto liscio ... A domani sera. (Albano).

21 aprile 2008
- 22,00: Finalmente arrivati al confine iraniano. Il gruppo è aumentato a 11 moto e 15 persone. Nessun problema in dogana, solo una lunga e snervante attesa. Domani incontro con amici motociclisti iraniani a Teheran.

23 aprile 2008
Oggi gita scolastica da 930 km tra Teheran e Mashhad.
Gruppo unito, compatto e scherzoso! Domani relax in Mashhad. No problem grazie al buon Dio che ci sta aiutando. (Claudio).

Siamo arrivati ad Ashgabat partendo da Teheran. Il viaggio procede bene. (Pippo).

24 aprile 2008
Oggi i bolidi hanno riposato e anche i nostri sederi. Giornata dedicata alla visita di Mashhad grande città al confine del Turkmenistan (Pippo).

25 aprile 2008
Pomeriggio: Trasferimento Mashhad-Asghabad dopo 6 ore di dogana per entrare in Turkmenistan; l'ingresso in città ci cattura come se vivessimo una fiaba.
Sera: Arrivati ad Ashgabat, Turkmenistan, gruppo invidiabile. Indimenticabile cena italiana da Luigi, titolare dell'ottimo hotel di Nissa. (Pippo, Claudio).

26 aprile 2008
Meraviglia, stupore, molta pulizia! Forse ... pazzia! Impossibile spiegare, bisogna vivere Ashgabat! Domani ci aspetta il deserto del Karakum! Sono le 21 e ci sono 35 gradi! Il gruppo è compatto e scherzoso! Notizia: è nato lo stato e il governo del Fanc..listan! Domani il presidente! (Claudio).

27 aprile 2008
Magnifici, fantastici 500 km di strada impossibile. Eppure tutto ok. Siamo in Uzbekistan a Nukus. Domani lago d'Aral. Se continua così il sogno si sta realizzando (Pippo).

28 aprile 2008
Sera: tutto OK, dopo 560 km di deserto siamo finalmente arrivati a Nukus, città fantasma (che schifo) poi lago d'Aral
e ora via per Khiva . Domani ci aspetta la mitica Bukhara (Claudio).

29 aprile 2008
Mattina: visita della città di Khiva, un bellissimo museo a cielo aperto. Da perdersi nelle fotografie.
Pomeriggio: trasferimento a Bukhara.
Tonino ha bucato una gomma ed è stata riparata. A Claudio non funziona più l'antenna di accensione (grazie Alberto per averci fornito del cavo di collegamento). (Pippo).

30 aprile 2008
Oggi è stata una giornata un po' complicata. Iniziata nella bellissima Khiva con vestigia storiche molto interessanti, partiti alle 10 per Bukhara, e con 'soli' 450 km da fare saremmo dovuti giungere alle 16. Avventuroso pieno di benzina: qui si paga prima chiedendo i litri di benzina che vuoi, e se ne chiedi troppa fuoriesce; vi lascio immaginare i problemi e il tempo necessario per riempire 11 moto. La strada passa su un ponte ferroviario in alternanza con ... il treno! lunga attesa sotto il sole cocente. Abbiamo attraversato il deserto rosso con 40 gradi di temperatura per 300 km. Tonino ha forato e a Claudio non partiva più la moto. Finalmente alle 20,30 siamo giunti in hotel dove manca la luce, così la giornata si conclude a lume di candela ... L'avventura continua. (Albano).

2 maggio 2008
Oggi visita a Samarcanda: molto bella ma anche molto piena di turisti.
Nel pomeriggio partenza per Taskent dove organizzeremo il rientro nostro e delle moto.

3 maggio 2008
Mattino: Taskent - stiamo preparando le moto in aeroporto per la spedizione a casa. Siamo un po' preoccupati per le procedure di imbarco e la burocrazia di questo paese. Speriamo che tutto funzioni. (Claudio)
Pomeriggio: tutto OK, grazie al buon Dio abbiamo sdoganato le moto, adesso le aspettiamo a Milano! Questa notte saremo a Mosca e poi ... casa! Che gruppo ragazzi! (Claudio)

Oggi giornata a Taskent. Mentre i passeggeri visitavano la città, noi conduttori siamo andati in dogana per occuparci della spedizione delle moto. Prima la dogana ha controllato i bagagli contenuti nelle borse delle moto, poi il tutto è stato legato e caricato sui pallets pronti per essere stivati sull'aereo. Domani mattina abbiamo il volo per Malpensa e poi non ci rimane che attendere che arrivino le nostre amate moto. Ma questo arrivo non è che l'inizio di un nuovo progetto di viaggio, il Long Way East 2. (Pippo)
Altri commenti di viaggio

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