Camino Real

Camino Real

Programma di viaggio

Diario di viaggio

4 Giugno

Mancano poche ore alla partenza, il Perù è laggiù, non esattamente dietro l’angolo, qualche decina di migliaia di chilometri a occidente, sette fusi orari in meno, sconosciuto e misterioso, così affascinante da sedurre viaggiatori usi ad avventure in ogni punto del globo, eppure rapiti da questo Paese, grande quattro volte la minuscola Italia.
Era febbraio quando per la prima volta ho iniziato a pensare al Perù come possibile meta di un’avventura, grazie ad Antonella ed all’entusiasmo con cui, tra alberi bottiglia e avvoltoi, sotto le dune di sabbia di Socotra, ci parlava del Viaggio con la V maiuscola: il Camino Real.
Al ritorno a casa, il Perù è rapidamente passato in testa alle preferenze: Lidia, Stefano, Rossella, Lucio, Silvia, tutti quelli che già ci sono stati, hanno contribuito a far crescere il desiderio di visitare quel Paese, con racconti calorosi e giudizi entusiastici.
Machu Picchu e il lago Titicaca coi loro nomi particolarmente bizzarri rappresentano ora una meta vicina ad essere raggiunta, alla stessa stregua delle Linee di Nasca, della Fiesta del Sole di Cusco, delle camminate sulle Ande; e pazienza se bisognerà convivere col mal d’altura, con i borseggiatori in agguato, con i conati di vomito sugli aeroplanini locali pilotati col gomito fuori del finestrino.
Via Atlanta, tra poco più di ventiquattro ore ecco Lima, laggiù, poco oltre l’angolo... e l’avventura avrà inizio.

Venerdì 5 Giugno

L’orologio segna l’una di notte, ora italiana, stiamo lasciando gli Usa, puntiamo verso il Sud America mentre qui il sole e’ ancora alto nel cielo e sotto di noi si estendono quelle che credo essere le paludi della Florida.
Sono uscito di casa alle quattro della mattina di venerdì, machina e bus, poi attesa a Milano Malpensa dell’imbarco su un aereo della compagnia Delta Airlines e con un volo di dieci ore si è raggiunta Atlanta, capitale della Georgia.
Le hostess del volo DL75 sono le meno attraenti che mi sia mai capitato di incontrare. Saranno le conseguenze della crisi economica che impone stipendi bassi e impedisce di reclutare giovanni di bell’aspetto e maggiori pretese economiche, saranno selezionatori del personale dalle convinzioni estetiche bizzarre, sarà... sarà l’America!
Ma la signora dalle gambe storte e i capelli cotonati che in un inglese pastoso domanda imperiosamente chicken or pasta? sembra appena uscita da un film di cowboy, dove interpretava la stagionata cameriera che ai tavoli serve patatine e birra a ubriaconi dalla battuta greve. E la sua collega pallida e tetra che emerge dalla business class, più che conforto ai benestanti lì collocati, avrà suggerito scongiuri e toccatine scaramantiche.
Di Atlanta non conosciamo che l’aeroporto, dicono inmenso, in effetti il traffico sulle sue piste è più intenso che sulle strade del Madagascar, atterraggi e decolli sono un viavai continuo, aerei in coda che aspettano, l’effetto ottico in lontananza fa temere lo scontro frontale tra chi sale e chi scende, ma quanta gente vola...
In aeroporto scopro che il cellulare farà turismo come me: ’nessun servizio’ sul display e i miei compagni di viaggio a suggerirmi l’ipotesi che non sia un trial-band, ma un vecchio dual-band, incompatibile con il sistema di trasmissione delle Americhe. Dunque un bel vaffanculo alla tecnología dal profundo del cuore!
Intanto, all’una e trenta ora italiana, siamo sul mar dei Caraibi, un nuevo pasto, non so se definirlo pranzo, cena, colazione, in volo non si fa altro che mangiare e dormire, qualche ora fa, per cena, o forse era merenda, no, erano le due e mezza del pomeriggio in Usa, ci hanno deliziato con un trancio di pizza al pesto!
Il fuso orario - siamo a meno sette dall’Italia - demolisce le abitudini, sta tramontando il sole anche qui, schiaccio un pisolino, un altro ancora...

Sabato 6 Giugno

Il Cavaliere visto dal Perù.
Se ne sta andando la prima giornata nella terra degli Incas, mentre un bus tutto per noi ci sta portando da Lima a Pisco, tra colline di sabbia e l’oceano Atlantico che di tanto in tanto fa capolino sulla nostra destra.
A Lima siammo sbarcati alla mezzanotte locale, le sette del mattino in Italia, quindi dopo ventisette ore di viaggio, di cui oltre sedici di aereo.
Arrivare in Perù da’ una gradevole sensazione di casereccio, la paranoica ossessione della sicurezza che si percepisce negli Usa lascia spazio ai bonari controlli della dogana peruviana, lontane le registrazioni delle impronte di mani e dita e la foto di Atlanta.
Scossi dal viaggio e dal fuso, il letto dell’albergo è un toccasana, peccato che un martello pneumatico alle quattro del mattino ci dia una sveglia tanto inattesa quanto brutale. Dura poco, si dorme ancora, anche se non vi è necessità della sveglia, che’ alle sette il solito fuso orario ci rimette in piedi.
Siamo nel centro di Lima, città che appare immersa in un grigiore che la avvolge dal cielo alle strade, una pioggerellina sottile dentro cui si muovono uomini e donne altrettanto grigi.
Massacro, Bagno di sangue nella selva, i titoli dei giornali locali, inquietanti nelle edicole di Plaza Mayor, su cui si affacciano la cattedrale, il palazzo del governo e il municipio.
Ieri, nel nord del Paese, un blocco stradale di indigeni a sostengo di rivendicazioni sociali, è degenerato in scontri con la policía intervenuta a rimuovere il blocco, scontri che hanno provocato un numero imprecisato di morti.
A Lima non c’è tensione apparente, il quotidiano El Comercio fornisce una versione edulcorata, la Policía presidia la piazza, non vi è traccia di quel che è succeso, se non sui giornali.
Stupore, sarcasmo, frustrazione quando dalla prima pagina del giornale vediamo sorridere il nostro presidente del Consiglio. Sì, proprio lui, Silvio, in Perù!
Anche qui è arrivata la fama, non delle sue virtù di statista, ma delle sue doti di intrattenitore e delle foto nella villa in Sardegna.
Noemí, una foto dell’amico Topolanek, il presidente ceco, nudo, che nell’articolo si comenta ’..apparentemente in preda ad un’erezione', il sequestro delle foto, una querela contro lo spagnolo El Pais.
Siamo in Perù: arrivera’ pure qui la censura? Per ora sono arrivati... quelli della sinistra, evidentemente.
Tra il cambio della guardia davanti al palazzo del governo ed un piatto di cebiche de mariscos, ci perdiamo Alan, che ritroviamo miracolosamente ad un angolo di strada, mentre ci avviamo verso il museo di storia e antropología . Si ipotizza di lasciargli il Gps che porto con me, per evitare di correre il rischio di non trovarlo piu.
Suggestiva la visita al museo, dove reperti delle civilità che si sono susseguite in Perù, in ottimo stato di conservazione, testimoniano come anche da questa parte dell’oceano si siano sviluppate culture che hanno lasciato tracce significative, prima di soccombere alla ottusa ferocia dei conquistadores venuti a portare una fede imposta con la forza delle armi e della morte: l’esportazione della democracia dei giorni nostri.
Poi, via lungo l’oceano, sul lungomare di Lima i puntini neri delle mute dei surfisti in mezzo alla spuma bianca, le catapecchie colorate aggrappate alla montagna nei sobborghi della capitale, i lunghi chilometri che nella notte ormai calata, tra camion che arrancano, ci conduce a Pisco, seicento morti nel terremoto di cui è stata l’epicentro nel setiembre del 2007.

Domenica 7 Giugno

Domenica di elezioni.
Ci si sveglia a Pisco con un fugace pensiero alle elezioni che in Italia impegnano milioni di cittadini senza speranze di. . . redenzione.
La colazione ci riporta nello stesso bar dove ieri sera si è conclusa la giornata a tracannare pisco, il tipico liquore del Perù, prima di partire per le isole Ballestas, terra del guano, prodotto da migliaia di uccelli che qui vivono in perfetto accordo con la natura.
C’è pesce per tutti, pellicani e sule, cormorani e pinguini, colonie sterminate che popolano le scogliere a picco sull’oceano, voli a pelo d’acqua a caccia di acciughe, stormi in formazione che ondeggiano a distanza, disegnando figure come di danza.
Il solo rumore che lacera l’aria è quello dei versi degli uccelli e il barrito dei leoni marini, pigramente distesi sugli scogli, buffi cuccioloni di peluche dall’aspetto inoffensivo.
Scampato il bombardamento di guano, terrore dei turisti e manna per i venditori di cappellini, quel guano un tempo oggetto di fiorente commercio verso l’estero, oggi soppiantato dai fertilizzanti di origine chimica, si riparte per il sud, lungo la mitica Panamericana, per arrivare all’oasi di Huacachina, verde improvviso che rompe il deserto.
L’escursione in dune-baggy è da mozzafiato, su e giù per mezz’ora tra salite e discese sulle dune altissime, brividi da montagne russe, che quando vedi la cima della duna e il cielo azzurro sopra quella, non sai cosa ci sia oltre, trattieni il fiato per chiudere gli occhi quando il rombo del motore si fa assordante e piombi giù a velocità folle, sperando di non essere tu a sperimentare il capovolgimento.
Giù dalla duna, sulla tavola da snowboard cavalcata a pancia in giù o seduti su, le mani a fare da freno - meno le usi più fai strada - ti senti per pochi secondi un campione dello slittino.
Siamo veloci e alle quattro di pomeriggio raggiungiamo Nasca e le sue ’linee', pronti a salire su piccoli aeroplani ad elica che ci trasportano su queste misteriose figure disegnate dalla popolazione che qui viveva negli anni intorno alla nascita di Cristo.
Le linee tracciate sull’altopiano arido sono centinaia, alcune ben visibili dall’alto rappresentano uccelli - colibrì, pappagalli, condor - un ragno, un astronauta, una lucertola, mistero irrisolto dagli studiosi che invano hanno tentato di dar loro un significato; oggi il sito è meta di innumerevoli turisti, che cominciano all’alba a salire sui velivoli per scrutare disegni di incredibile fattura, specie se si considerano i mezzi di cui quella popolazione disponeva secoli e secoli addietro.
Il volo non ci crea troppi problemi, a dispetto delle pessimistiche previsioni alle quali si era stati indotti da racconti inquietanti circa il negativo impatto sull’apparato digerente di parecchi viaggiatori: il diavolo non è sempre così brutto come lo si dipinge.
L’anticipo sui tempi ci permette una pausa nella frenetica attività che contraddistingue il viaggiatore, si cena nel centro della città e si chiude la giornata sul bordo della piscina del residence dove si alloggia, con l’immancabile pisco, a conciliare digestione e sonno.
Domani ci aspetta una giornata di lunghi chilometri in pullman.

Lunedì 8 Giugno

Il giorno dei morti.
Sono i morti il filo conduttore della giornata, che inizia a Nasca, mentre sopra di noi i voli sulle ’linee’ cominciano all’alba.
La necropoli della civiltà di Nasca, a pochi chilometri dalla città ci introduce al tema dei defunti, che qui sono esposti in tombe rifatte nel secolo scorso, sulla base delle scoperte e con i reperti lasciati dai tombaroli che dicono avere saccheggiato senza scrupoli.
Mummie di uomini, donne e bambini, scheletri - o meglio, ossa - in una dozzina di tombe e altre mummie all’interno di una teca esposta in un museo, sono quanto ci mostra il sito, collocato nell’arido deserto che fiancheggia l’oceano, con montagne spettacolari e un’infinita strada dritta, un nastro d’asfalto che si perde all’orizzonte, dietro colline infinite anche loro.
Tira un vento impetuoso dal mare, la sabbia ricopre l’asfalto nei punti dove la strada corre più vicina, tanto che si deve ricorrere a pale meccaniche per rimuovere le dune e permettere il passaggio dei veicoli.
Di tanto in tanto capanne di paglia in mezzo al nulla, al bordo della strada, indicano la disponibilità di carburante di contrabbando, venduto a prezzi inferiori rispetto a quello delle stazioni di servizio, tra l’indifferenza generale e la complicità dei tutori della legge.
La strada percorsa nel pomeriggio è suggestiva e pittoresca, a strapiombo sull’oceano Pacifico che ci accompagna qualche decina di metri più in basso, quasi sembra che le Ande si gettino nelle fredde acque.
E’ un succedersi impressionante di croci a testimoniare quante vittime abbia mietuto la Panamericana in questo tratto dove la velocità e le curve sono fonte di uscite di strada evidentemente mortali.
Il nastro di asfalto si snoda lungo chilometri e chilometri, di rado si attraversa qualche centro abitato, dove improvvisi dossi costringono a procedere a passo d’uomo, rallentando una marcia altrimenti spedita, ma il riproporsi ininterrotto di croci, a volte singole, spesso multiple, non lascia tranquilli, finchè infine lasciamo la costa per cominciare la marcia di avvicinamento alla cordigliera andina, quando è ormai buio. Si sale a 1.000 metri in pochi chilometri, procedendo a trenta orari, sull’altipiano la nebbia nasconde la strada, non la luna che ha preso il posto dell’oceano nell’accompagnarci verso Arequipa, la meta giornaliera.
Le luci in fondo alla valle ci annunciano da lontano che la città si avvicina, la luna illumina la montagna alle sue spalle, la cima ricoperta di neve a 6.400 di altitudine.
Arequipa - a 2.350 metri - ci accoglie con un fresco al quale dovremo fare l’abitudine nei prossimi giorni.
Internet mi racconta della scomparsa completa della sinistra a Poirino (residenza di Carlo - ndr): è morto anche l’ultimo barlume di speranza.
Coperte spesse a difenderci dal freddo di una notte tranquilla ormai sulla cordigliera delle Ande.

Martedì 9 Giugno

In attesa dei cinquemila.
Il cielo su Arequipa è terso e azzurro, tanto quanto a Lima era grigio.
La giornata di ieri, il lungo trasferimento in bus, tra caldo e freddo, ha lasciato qualche strascico sul mio fisico ed oggi non partecipo appieno della città, che inizia con la visita del monastero di Santa Catalina, già convento di clausura per vari secoli, oggi anche monumento aperto al pubblico, che ne può apprezzare l’ampiezza che ne fa una cittadella, con viuzze interne su cui si affacciano edifici dipinti di colori intensi, mentre gli interni denotano un certo confort al quale erano use le suore che vi dimoravano, discendenti di famiglie benestanti per le quali era un onore poter avere una figlia monaca.
Mentre gli altri proseguono il giro in città, torno in albergo, per rimettermi in sesto, poi raggiungo la compagnia che sono le cinque e fa già buio: qui alle cinque e mezza è buio, la città è ancora viva, ma si spopola in fretta, dopo cena non pare esserci molta vita, anche il traffico è esiguo, pur vivendo qui quasi un milione di persone.
Nel pomeriggio, faccio in tempo a vedere la cattedrale, sulle cui cancellate esterne sono affissi cartelli scritti a mano, in sostegno degli indigeni massacrati l’altro giorno dalla Policia di Alan Garcia, il presidente la cui politica di svendita del Paese agli interessi stranieri ha generato le proteste poi sfociate nel sangue.
Sulla piazza antistante, un intenso affollarsi di gente impegnata in conversazioni, sulle panchine incredibili estensori di lettere scritte a macchina, con vecchie macchine da scrivere di quelle che dalle nostre parti sono ormai scomparse da anni, lustrascarpe volanti, i soliti venditori di oggetti per turisti, cortesi e discreti, polizia a suggerire di fare attenzione a come si porta la macchina fotografica, ad evitare spiacevoli contrattempi.
Domani si sale a quasi 5.000 metri, ora si fa davvero sul serio.

Mercoledì 10 Giugno

Verso i cinquemila.
Ce ne andiamo da Arequipa mentre la città - la seconda del Perù - sta entrando nei ritmi abituali, sotto un sole già caldo alle nove del mattino.
L’urbanistica non ha fatto meraviglie, ma non si vedono all’orizzonte palazzacci da venti piani, nella pianura che poco a poco lasciamo alle spalle si estende una grande città, a perdita d’occhio, case basse senza tetti spioventi, spesso col tetto in lamiera, popolata di gente di etnie differenti come il resto del Perù.
Questa città accoglie i resti di Juanita, la bambina inca ritrovata nel ghiaccio di uno dei tre vulcani che la circondano, cinquecento anni circa dopo la sua morte, avvenuta per mano dei sacerdoti che la sacrificarono agli dei, per invocarne la misericordia negli anni dello splendore della civiltà incaica.
Al museo si conservano oggetti, monili, vesti e quel che i ghiacci hanno conservato nei secoli, di una bambina di circa 12-14 anni, fin dalla nascita destinata ad essere vittima sacrificale, come numerosi altri bambini, sottratti alle famiglie e istruiti al loro destino fin dall’infanzia.
La strade sale fra pietraie aride e soleggiate, i camion faticano, spesso carichi di materiale per il cementificio, che produce cemento per tutto il sud del Paese, situato poco lontano dall’abitato; anche il nostro bus ha qualche difficoltà, il turbo, indispensabile dai quattromila in su, stenta nella ripresa e i sorpassi di enormi Volvo sono un azzardo.
Poi, sull’altopiano ad oltre tremila, il parco delle vigogne, una delle quattro specie di camelidi andine, animali selvatici eleganti e veloci che scorrazzano ben difese dalle strutture e dalla coscienza - non so quanto spontanea - delle popolazioni locali.
La loro eleganza e il color miele le distinguono dal lama e dall’alpaca, che incontriamo più avanti, ad altezze maggiori; addomesticate nei secoli dall’uomo, vivono in branchi, a volte sorvegliati da pastori, dalla pelle cotta dal sole, che masticano coca per ridurre il senso della fatica e dell’appetito e per aumentare la reattività fisica e mentale.
Le cime dei vulcani sono innevate, le distese di cactus si contrappongono ai ruscelli ghiacciati, cascate d’acqua gelate ai bordi della strada, mandrie di lama e alpaca che si spostano sull’altopiano ad abbeverarsi nelle pozze ormai quasi asciutte ai 4.400 metri della Pampa de Toccra, una vasta pianura disseminata di questi animali pacifici e indolenti, da cui gli indigeni traggono sostentamento nella difficile vita di queste altitudini.
Ai 4.910 del passo, il mal d’altura colpisce alcune persone del gruppo, per cui la sosta tra le bancarelle delle venditrici di maglioni, cappelli in lana d’alpaca, guanti, sciarpe, è breve, si scende per limitare il senso di nausea, le difficoltà di equilibrio che caratterizzano questo male.
Dopo una discesa spettacolare, fatta di ripidi tornanti, si giunge a Chivay, a circa 3.700 metri di altitudine: la notte si presenta molto fredda, quando il sole scende dobbiamo far ricorso a giacche a vento a pile, a letto tre coperte pesantissime ci aiuteranno a sopportare la rigida temperatura della notte, sotto un cielo stellato.

Giovedì 11 Giugno

Il giorno dei condor.
La sveglia è all’alba, le coperte hanno protetto adeguatamente, nonostante qualche spiffero vi si insinuasse subdolo.
L’aria del mattino è frizzante, il sole fatica ad allargarsi sulla valle del Colca che andiamo a risalire, lungo una polverosa strada che taglia il fianco della montagna.
Paesini che si svegliano, la gente che va al lavoro nei campi o a vendere souvenir ai turisti che poi si ammassano sui miradores - le piazzole da dove osservare i condor, l’uccello simbolo delle Ande.
Le correnti ascensionali che salgono dal fondo del cañon - il secondo al mondo per profondità - permettono a questo uccello maestoso di librarsi nell’aria dispiegandosi in un’apertura alare che può arrivare fino ai due metri.
Il mio appostamento infelice me ne limita la visione ravvicinata che ho solo quando infine mi sposto in un altro punto, dal quale però velocemente si allontanano questi enormi corvacci a cui ci preparavamo da giorni.
Con un po’ di preoccupazione dovuta alla necessità di un nuovo transito ai circa cinquemila metri di ieri e al mal d’altura di cui paiono soffrire alcuni degli avventurieri, salutiamo Chivay e le sue terme, nelle cui acque a 37-38 gradi ci siamo crogiolati nel pomeriggio di ieri, immersi nell’acqua della piscina del pueblo, quella degli indigeni.
Risaliamo al passo, senza incontrare particolari problemi, ci imbattiamo ancora in alpaca e lama e vigogne, al pascolo nelle Lagunas de Salinas - quasi asciutte in questa stagione; nasce qui una nuova specie di animale - la figogna - il cui tentativo di avvistamento diventa una sfida per i prossimi giorni.
Ad Arequipa ci congediamo da Hugo e Alberto, i due autisti che ci hanno accompagnato fin qui e che ci riprenderanno a Lima, tra due settimane.
La festa del Corpus Domini è assai sentita e la sera la piazza centrale pullula di suore e preti, fedeli e portatori di labari di associazione religiose, che assistono alla messa celebrata dall’arcivescovo della città, in un’atmosfera di misticità sospesa.
Nessuna traccia invece delle paventate manifestazioni in sostegno delle lotta degli indigeni dell’Amazzonia, le cui motivazioni raccolgono una forte solidarietà popolare, testimoniata dai cartelloni scritti a mano che ancora ricoprono la cancellata della cattedrale, come due giorni addietro, pieni di scritte contro Alan Garcia, il presidente, uno degli ultimi baluardi del conservatorismo reazionario rimasto nell’America Latina.
Ci concediamo una cena in un ristorante sulla plaza de Armas e un pisco sauer di soli uomini in un locale poco lontano, prima di tornare all’albergo.
Domani ci aspetta il Cile.

Venerdì 12 Giugno

Addio Arequipa.
L’autobus per Tacna, all’estremo sud del Perù, parte alle sette e mezza, quindi nuova levataccia all’alba, bagagli in spalla, un saluto alla gentile ed attempata proprietaria dell’accogliente albergo dove abbiamo dormito tre notti, e poi via.
Quando mi lascio alle spalle un posto in cui sono stato da viaggiatore penso sempre che si tratti di un addio; per Arequipa questa sensazione di congedo definitiva è accentuata dalla prospettiva che, dicono i geologi, essere ineluttabile che un’eruzione catastrofica di El Misti, il vulcano che la sovrasta, distrugga questa città, sorta, distrutta e risorta più volte, a qualche chilometro dal cratere del vulcano.
Il Perù deve suo malgrado convivere con eventi naturali che lo flagellano periodicamente, anche i terremoti compiono la loro opera di devastazione. Moquegua, una cittadina perduta nell’arido deserto-montagna che si estende per chilometri e chilometri, presenta i segni del passaggio del terremoto del 2001, nelle case parzialmente ricostruite, da cui si alzano putrelle e colonne portanti, opere incompiute.
Il deserto di montagna è un paesaggio lunare, la striscia di asfalto sale e scende senza fine, chilometri interminabili senza l’ombra di una curva, controlli di polizia lungo la strada, croci di morti, mentre dal secondo piano di un comodissimo autobus granturismo troneggiamo su sabbia rossiccia arsa dal sole a picco, e Alice cerca di individuare i proprietari dei deretani immortalati sulla sua macchina fotografica, in una pallida emulazione di una immortale scena di ’Amici miei’.
Formalità doganali sbrigate in fretta ed entriamo in Cile, deserto e deserto, quindi Arica, la maggiore città del nord del Paese, punto di partenza per addentrarsi nelle vallate che risalgono le Ande.

Sabato 13 Giugno

Ricordi di Toro.
La divertente e turbolenta serata di Arica, vino cileno, pisco sauer ad annaffiare cibi preparati con perizia dalla cuoca della signora italiana che ci ospita nella sua casa, hanno lasciato segni, che la sveglia ritardata rispetto al solito non ha potuto cancellare del tutto.
Arica mi evoca un ricordo di infanzia legato ai campionati del mondo del 1962, che si disputarono in Cile nel 1962.
Se la memoria non mi inganna, in questa città l’Italia si giocò il passaggio del turno in una partita decisiva contro la nazionale cilena. Fu una partita burrascosa, arbitrata da un inglese che le cronache sportive dell’epoca definirono ’l’ineffabile signor Aston’ il quale diresse in maniera che fosse la squadra del Paese ospitante a vincere l’incontro - infatti fu due a zero per il Cile - espellendo due giocatori italiani.
Uno di essi era il mitico, indimenticabile Giorgio Ferrini, bandiera del Toro (un abbraccio speciale ai granata che mi leggono).
Ora l’autobus risale la valle del fiume che da’ vita a quest’area del Cile settentrionale, in breve si è a mille metri, la strada sul fianco scosceso della montagna, fatta di sabbia, ti chiedi come faccia a star su, il cielo, grigio alla partenza da Arica è tornato del medesimo azzurro che non ci è mai mancato fino ad ora, ad illuminare la terra spoglia e sassosa dell’altipiano.
Duemila, tremila, si sale sempre più tra cactus e pietre, arbusti rinsecchiti e il vulcano innevato che si avvicina, gole profonde e due esemplari di guanaco, l’ultimo della famiglia dei camelidi che ancora non fossimo riusciti a vedere - figogna a parte.
A Putre abbandoniamo Sabrina, alle prese con problemi di stomaco, e il suo sarcofago, e saliamo ai quattromila e più del lago Chungarà sovrastato dal vulcano Parinacota, la cui cima innevata domina su una spettacolare pianura.
Il lago è popolato di uccelli dai nomi a noi sconosciuti, colorati, rivediamo esemplari di condor che ci volano sulla testa, curiosi.
Il minuscolo paesino di Parinacota rappresenta un tocco di poesia, privo com’è di turismo e degli orpelli che questo si porta dietro, passeggiamo tra i lama che ci guardano, bianchi, neri, marron, senza alcun timore nei nostri confronti.
Non vi è anima viva, il paese è deserto, anche se la presenza di una scuola fa pensare che sia abitato.
Una chiesetta, il cimitero con le croci dipinte con colori pastello e qualche fiore ormai secco, un campo di calcio dove i lama giocano a . . . calcetto, un negozio di souvenir, una bimba di nome Noemi e il sole che comincia a tramontare dietro le imponenti vette dinnanzi a noi.
Fa freddo al ritorno a Putre, alloggiamo in un inospitale garage adattato ad hostal, con una decina di camerette a due letti, con la solita buona dotazione di coperte per la fredda notte che ci attende.

Domenica 14 Giugno

Bolivia.
Scosse di terremoto avvertite all’alba da alcuni di noi confermano che ci si trova in una zona ad alto rischio sismico.
Il risveglio presenta un quadro ottimale dal punto di vista fisico, tanto Francesco quanto Sabrina hanno superato i loro problemi e la serata di Putre è stata così scialba da non favorire malesseri o sbronza.
Problemi di cambio - qui siamo in Cile, ci vogliono i pesos, - un listino di consumazioni decente ma zeppo di indisponibilità - un tipo di birra disponibile su dieci, il freddo pungente, ci hanno mandati a letto alle dieci, senza un pisco nè una birra, quindi...
Il bus per La Paz ci aspetta per quaranta minuti, grazie ad un errore dell’agenzia sui tempi di transito, usciamo dal Cile - non troppo ospitale - alla frontiera ad oltre quattromila metri per entrare in Bolivia di Evo Morales, il primo presidente indigeno di questo Paese, incastonato fra le montagne, uno tra i più poveri dl continente latino-americano.
E’ un lungo viaggio quello che, attraverso l’altopiano a 3.500-4.000, con una densità di popolazione bassissima in un territorio piatto, con tonalità di colore tenui e rilassanti, ci porta, sul far della sera a vedere La Paz, la capitale collocata in una incredibile posizione all’interno di un cono le cui pendici pullulano di una miriade di case, lungo viuzze che irradiano da un centro posto in basso fino a raggiungere i bordi dl cono.
Prima di poter scendere dal bus dobbiamo sottoporci ad una incredibile quanto inutile visita personale da parte di una dottoressa, la quale, armata di una paletta ’usa e getta’ ci controlla la gola, al buio, ci palpa le ghiandole del collo e ci libera, dopo averci chiesto di dichiarare l’assenza di malattie e di febbre. Ridicolo! Luigi ed io pensiamo di scrivere al Presidente per segnalargli l’inutilità dell’operazione!
Anche stasera tutto congiura contro le nostre pulsioni alcoliche, giacché rientriamo in albergo convinti di chiudere con un pisco, ma non facciamo i conti col bar che è chiuso ormai: torneremo a casa astemi...

Lunedì 15 Giugno

La Paz.
Giornata dedicata alla capitale boliviana, una città viva, nelle stradine della vecchia città coloniale come nei corsi centrali della parte nuova, dove grattacieli ospitano uffici dai quali all’ora di pranzo sciamano impiegati in giacca e cravatta che si mescolano a donne avvolte in scialli colorati, nei tradizionali abiti andini con bombetta sulla cui stabilità è lecito dubitare, ragazzini che escono da scuola.
Incrociamo manifestazioni di piazza, il rumore di esplosioni ci preoccupa un pochino, prima che ci rendiamo conto che si tratta di rudimentali mortaretti.
La cattedrale e la chiesa dedicata a S. Francesco d’Assisi sono le sole attrazioni della città, perciò nel primo pomeriggio qualcuno di noi prova a seguire il suggerimento dell’ufficio del turismo di visitare la Valle della Luna, un sito naturale dove formazioni rocciose disegnano pinnacoli che si stendono verso il cielo.
Peccato che il taxista non ne conosca l’esatta ubicazione, per cui ci lascia distanti dall’ingresso dell’area, non prima di averci indicato una direzione del tutto illogica.
Ritorno a La Paz con un bus pubblico, con fermate volanti, tariffa di 2 bolivianos - la moneta del Paese, che vale circa 10 centesimi di euro -, si scende al volo in mezzo al corso principale da una porta sempre aperta.
Lo shopping pazzo e disperato del tardo pomeriggio dimostra come il costo della vita in Bolivia sia per noi europei molto basso, saccheggiamo negozi policromi con pochi dollari - qui la moneta di riferimento è ancora quella statunitense - avendo modo di apprezzare la gentilezza della gente, in maggioranza di origine indigena - quechua e aymarà i principale gruppi etnici, con una minoranza di bianchi discendenti dai colonizzatori spagnoli e di meticci.
A cena ancora carne di lama, la cui qualità ci pare buona, migliore certo di quella dell’alpaca.
Ci prepariamo alla salita a Chacaltaya, la montagna che domani ci aspetta dall’alto dei suoi 5.500 metri di altitudine: il freddo preventivato lassù forse non ci farà dormire sonni tranquilli.

Martedì 16 Giugno

In cima alle Ande.
Certamente avremmo dormito sonni agitati, ma non per il freddo, se avessimo saputo quel che ci aspettava prima di arrivare in cima al Chacaltaya.
In effetti, quando la signora Teresa, la guida peruviana che ci accompagna stamane, esclama, dopo l’ultima sosta : ’Ragazzi, ora comincia l’avventura!', noi sorridiamo scettici e contenti. Passano pochi minuti e ci rendiamo conto di cosa la cosa intendesse e di quanto fossero veritiere le sue parole. Davanti a noi una montagna, il Chacaltaya, che dovremo risalire lungo una stradina che si inerpica sul fianco della montagna stessa. Sterrata, larga quanto basta per passarci il pulmino, ripida, tornanti stretti, e di lato, ad una parte la roccia rossastra, dall’altra il vuoto, le ruote stanno sulla strada, la carrozzeria sporge fuori, guardare indietro è da paura, ma quel che si vede sotto ed intorno a noi è uno spettacolo. Laghetti colorati di verde e di rosso dai minerali di cui la zona è ricca, le cime della Cordillera Oriental, che svettano bianche di neve.
Quando il pulmino si ferma a 5.300 al rifugio del Club Andino Boliviano, una camminata resa ardua dall’altura ci porta infine a quota 5.450. Il panorama è immenso, monti e valli, le case di La Paz laggiù in fondo, distanti ma vicine al tempo stesso, con l’Illimani a dominare e lontane all’orizzonte le montagne che separano la Bolivia dal Cile a sud e le acque del lago Titicaca a nord.
Malvolentieri ci stacchiamo dalla solitudine del Chacaltaya, la discesa e’ un susseguirsi di oooohh di spavento ogni volta che davanti a noi la strada scompare nel vuoto di un tornante, il rientro su terreni più percorribili è la fine di un piccolo incubo.
Attraversiamo la periferia di La Paz che si estende sul’altipiano che parte dal bordo del cono in cui sorge la capitale boliviana - due milioni circa di persone dei dieci dell’intera Bolivia - ancora donne in abiti tradizionali, scialli e bombette, in spalla tovaglie variopinte usate a mo’ di sacca, bambini in uniforme da scuola col viso cotto dal sole.
Il sito archeologico di Tiwanaco che vistiamo nel pomeriggio è ciò che è rimasto della civiltà omonima, fiorita negli anni tra il 1000 avanti Cristo e il 1200 dopo Cristo, prima che eventi naturali, una siccità durata anni, ne favorissero la decadenza e che la politica di distruzione delle radici dei conquistadores spagnoli ne cancellassero quasi interamente le tracce. La chiesa della cittadina è stata costruita con le pietre sottratte dai templi edificati nell’era precolombiana.
Chiudiamo la lunga giornata assistendo ad uno spettacolo di musica e danza che vengono spacciate per tipiche boliviane, non sappiamo se sia davvero così, ma è la sensazione di aver recitato la parte del turista ’pollo’ ad accompagnarci a letto.

Mercoledì 17 Giugno

Titicaca.
Anche La Paz è lasciata alle spalle, in una soleggiata ma fredda mattina dell’inverno australe, le cui rigide temperature avvertiamo nelle lunghe ore in cui il sole si nasconde.
A Copacabana - nessuna parentela con la piu’ famosa spiaggia di Rio - pare esserci una vivacità sconosciuta altrove. Tanti piccoli locali si affacciano sulla via che porta all’imbarcadero, i visi pallidi di turisti provenienti dal nostro emisfero, quasi totalmente giovani, creano un’atmosfera vagamente anni sessanta-settanta.
Anche l’Isla del Sol, da dove ebbe origine il dio Sole, secondo le tradizioni andine, è affollata di giovani pallidi, zaino e sacco a pelo in spalla, barbette incolte ed abbigliamento trascurato, alla ricerca della lontananza e della trasgressione.
Passaggio della frontiera, si torna in Perù, il bus è un turistico pubblico, alla partenza lascia a terra dei passeggeri che recupera con una lunga retromarcia, poi all’improvviso, nel buio delle sponde del lago, si ferma, mentre il fumo esce dal motore: se ne è andata la cinghia di trasmissione! Viviamo in diretta la diagnosi e la prognosi grazie a Luigi, di professione autista di bus come la sorella Debora; contribuiamo al ripristino della normalità fornendo l’acqua di cui c’è bisogno per il radiatore andato in ebollizione e salutiamo la ripartenza del mezzo con un caloroso battimani.
Il piano B, se mai ci fosse stato, non è dovuto scattare: scongiurato il pericolo si va a Puno, stasera temiamo di andare a letto senza cena.

Giovedì 18 Giugno

Quasi Titanic.
Quando il capitano (?) della barca a motore che ci stava trasportando all’isola di Amantani, tre ore da Puno, dove ieri sera siamo riusciti anche a cenare, ha preso un secchio ed ha iniziato a tirare su acqua dalla stiva e a svuotarla in mare, ci abbiamo riso su.
Ci trovavamo in vista dell’isola, avevamo già visitato le Uros, isole galleggianti fatte di totora, una canna tipica del lago Titicaca, accolti dalla gente del posto, che sul turismo vive e ci accingevamo allo sbarco. Poi il secchio piccolo è diventato un secchio grande, Luigi ha iniziato a collaborare all’operazione, gli si e’ affiancato Daniele, l’acqua monta sempre di più, la linea di galleggiamento pare alzarsi, le oscillazioni si fanno sentire, non è panico quel che serpeggia tra di noi, ma certamente non si ride più.
L’isola è vicina, non più di duecento metri, ma il punto di approdo non è immediato, i secchi d’acqua corrono di mano in mano, Fabio e Danilo danno il cambio a Luigi e Daniele, la barca galleggia, la preoccupazione sale, nessuno di noi indossa giubbotti salvagente, l’acqua è fredda, i vestiti pesanti sono una zavorra in caso dovessimo buttarci dalla barca.
Finalmente il molo si avvicina, attracchiamo, scendiamo a terra, tra l’indifferenza generale: qui se fossimo affondati, non se ne sarebbe reso conto nessuno!

Venerdì 19 Giugno

Terra!
La notte è trascorsa tranquilla, neppur troppo fredda, la stanzetta che ho condiviso con Daniele si è dimostrata confortevole, le coperte pesantissime a difenderci da una temperatura che ci dicono essere comunque vicina allo zero.
Il nostro padrone di casa ci porta la colazione, sono le sette e lui è già di ritorno dai campi, reduce da qualche ora di lavoro, approfittando della bassa temperatura e del chiarore che la luna irradia su questi luoghi non contaminati dall’inquinamento luminoso.
La moglie ci accompagna al porticciolo dove ci attende il nostro Titanic, che il capitano sostiene essere in perfetta efficienza.
Non abbiamo alternative, affrontiamo la traversata di ritorno con una vaga inquietudine addosso, l’ipotesi che facciamo circa il problema che ieri ci ha fatto rischiare l’affondamento - rottura della pompa che consente lo scarico in mare (anzi, lago) dell’acqua che ogni imbarcazione in legno accumula in stiva - un poco ci tranquillizza.
Raggiungiamo l’isola di Taquile senza difficoltà, un giro a piedi per le stradine in pietra, contornate da vegetazione così varia da fare la felicità di un botanico e le informazioni della guida circa la struttura sociale ed economica dell’isola, dove l’abbigliamento indica lo status sociale e civile degli abitanti (circa 1800) e poi si riprende il largo.
Arriva la notizia che la nazionale italiana di calcio, campione del mondo, e’ stata sconfitta dall’Egitto: evvai!
Le tre ore di navigazione per arrivare a Puno sono senza scosse, riusciamo anche a rilassarci al sole caldo di mezzogiorno, ma quando infine scendiamo a terra, ci sentiamo tutti sollevati: in barca, in questi giorni, non dovremo più salirci!
La visita della necropoli di Sillustani sul far della sera in un sito reso ancor più suggestivo dal tramonto imminente e da grossi nuvoloni neri che si addensano nel cielo che abbiamo sempre visto azzurro ci fa tornare alla consuetudine fatta di più tranquille visite a musei e sassi, tanto amate da alcuni tra di noi.
E domani proveremo ad andare a Cusco, blocchi stradali permettendo.

Sabato 20 Giugno

Sequestrati a Pampamarca.
Sono le otto e mezza di sera e siamo fermi da circa tre ore ad un blocco stradale predisposto da indigeni, in lotta per rivendicare diritti calpestati dal governo del signor Garcia.
Avanti non si va, indietro neppure: praticamente sequestrati!
Una giornata a dir poco movimentata. Le notizie di blocchi stradali sulla strada da Puno a Cusco ci hanno indotto a noleggiare un pulmino da quindici persone per aggirare i blocchi e raggiungere Cusco attraverso strade non toccate dalle manifestazioni.
Invece, a fine mattinata una fila di macchine e pullman fermi e terra disposta di traverso sulla strada ci fanno capire che i blocchi ormai interessano anche le strade secondarie. Si cerca di parlamentare, la situazione è calma, ci chiedono di partecipare con loro ad un corteo fino alla Plaza des Armas, sede del municipio. Accettiamo di buon grado e ci mettiamo alla testa del corteo, Luigi - l’hermano gordo del Che - , Danilo ed io in prima fila, Rossella, Alice, Debora e Sabrina - miss padania - subito dietro, per la strada deserta ad urlare i loro cori contro la privatizzazione dell’acqua, aggiungendoci ’Bella ciao’ e ’bandiera rossa’ con grande partecipazione. Ottenuto il loro scopo, i manifestanti ci lasciano passare, assicurandoci che non avremo problemi in seguito.
Macché! Pochi minuti e siamo nuovamente fermi.
L’autista, informato di un nuovo blocco, ha provato una deviazione per evitare il paese, ma pietre, tronchi e uomini impediscono il transito, quindi si torna verso il paese: superiamo un blocco gestito da ragazzini che lanciano pietre da un pendio lungo la sterrata che stiamo percorrendo, ma poi pietre ammassate su un ponte all’ingresso del paese d’origine del famoso guerriero Tupac Amaru impediscono il passaggio di qualsiasi mezzo.
Anche qui si parlamenta, una delegazione prova a convincere gli indigeni a rimuovere il posto di blocco, promettono di parlare con i loro referenti, pare che si debba partire da un momento all’altro, si tratta, gli indigeni dibattono fra di loro, ci viene chiesto di girare un video della manifestazione, anche se non si capisce a quale scopo serva, ci prestiamo, ma la situazione non si sblocca e intorno alle cinque del pomeriggio ci dirigiamo verso Pampamarca, dove ci dicono che il blocco non sarà operativo prima delle sei e mezza.
Non si passa neppure qui, nasce un diverbio, Cristina e Ada provocano le ire delle donne del luogo che, inviperite, esigono le scuse, ma nulla si muove.
Fa notte, i campesinos continuano a discutere fra di loro, voci dicono che le donne si oppongono alla rimozione del blocco, mentre gli uomini sarebbero propensi a lasciarci andare.
Infine, sono ormai le nove di sera, non abbiamo mangiato altro che i biscotti e qualche frutto portato da Puno, la situazione si sblocca, la lunga fila di veicoli bloccati si avvia verso Cusco, lungo una strada che il nostro autista vola tra nuvoloni di polvere.
Massi e pietroni da scansare, bus di mezzo, intrappolati, al fondo dello sterrato un ponte semidistrutto e una bolgia da girone dantesco.
Il ponte e’ disastrato, assi traballanti disposte sulla struttura metallica in posizione ortogonale, vuoti tra l’uno e l’altro, ci passano i camion che provengono dalla parte opposta alla nostra, uno alla volta con grande circospezione, a passo d’uomo, se passano loro non passano i pedoni e viceversa, noi dobbiamo scendere dal bus e traversare a piedi, perché dall’altra parte ci aspetta il bus dell’agenzia di Cusco: un incubo!
Schiamazzi, strepiti, insulti, il vuoto sotto i piedi, la torcia in una mano - non c’è luce, se non quella dei camion - e la valigia nell’altra, ci si avvia due volte per essere respinti dalla prepotenza dei camionisti che non arretrano di un centimetro, non c’è alcuna organizzazione a regolare il flusso di uomini e mezzi. Poi affrontiamo la traversata - 50-60 metri sull’inferno - qui temiamo per la nostra incolumità, ma la buona stella ci aiuta e ci ritroviamo tutti di là sani e salvi.
Ottanta chilometri di strada finalmente asfaltata e a mezzanotte passata l’ingresso nell’albergo di Cusco mette la parola fine ad un giornata da ricordare.

Domenica 21 Giugno

L’avventura di ieri non ha lasciato segni negli avventurieri andini, anche se ne permangono gli echi. Si ricordano i momenti piacevoli - il corteo di protesta capeggiato dagli italiani di ogni colore politico - e quelli più drammatici, tra questi la furia delle donne di Pampamarca contro la nostra compagna che, in preda all’ira, aveva rovesciato il secchio dell’acqua, scaraventandoglielo contro; la successiva presentazione di scuse da parte dei nostri ambasciatori, circondati dalla gente adirata e dalle donne vocianti e il ponte dantesco.
Alla fine mi rimangono alcune domande: ci si deve incazzare con gli organizzatori dei blocchi, che con le loro azioni ostacolano il nostro viaggio o contro il governo peruviano che nulla fa per migliorare le condizioni di vita della popolazione e le spoglia dei propri diritti, quali terra e acqua?
Qual e’ il ruolo di un viaggiatore nel contesto delle contraddizioni presenti nei Paesi che si visitano?
Domande alle quali riesce arduo dare una risposta: certamente ieri si è manifestata in tutta la sua evidenza una distanza straordinaria tra la gente del Perù ( o almeno una sua parte) e chi la amministra e la controlla.
L’intensità del programma tuttavia ci riporta presto alla realtà, lo zoo dei camelidi peruviani, il sito archeologico di Pisac, il mercato domenicale del paese, variopinto e vivace, le empanadas, la parillada - braciola - e la trucha - trota - consumate ai banchetti in strada, appena preparate da mani tanto abili quanto unte di olio. Poi nel pomeriggio la visita al sito di Ollantaytambo, terrazzamenti per l’agricoltura, simbologia nelle strutture delle case, leggende della principessa Nusta.
Infine in treno si scende ad Aguas Calientes, finalmente sotto i tremila metri, si sta bene anche a mezzanotte, domani si spicca il volo verso Machu Picchu.

Lunedì 22 Giugno

Machu Picchu!
Finalmente Machu Picchu!
La citta’ misteriosa degli Inca, vecchia di quasi seicento anni, dichiarata dall’Unesco Patrimonio mondiale dell’umanità, una delle sette meraviglie del mondo, meta di viaggiatori provenienti da tutto il mondo, si apre a noi, in un’alba nuvolosa ma già calda.
La sveglia è mattiniera, alle quattro e mezza siamo in piedi, alle cinque in coda per prendere il bus che da Aguas Calientes porta all’ingresso del sito, bisogna essere tra i primi ad entrare, alle sei siamo su, venti minuti di salita sulla strada scavata nella montagna, ci precipitiamo verso lo sbarramento dove si selezionano i primi quattrocento visitatori che avranno il privilegio di osservare la città dall’alto di Huayna Picchu - sono il numero 330 - , poi via con la visita ai resti di quella che neppure i conquistadores spagnoli seppero scoprire.
Collocata in alto, in cima ad una rocca, su un pianoro, facilmente difendibile da eventuali assalti terrestri e immersa nella selva, deve a questi fattori la sua relativa conservazione; tutto quanto non esiste più è dovuto all’azione degli eventi naturali, acqua e vegetazione - fino al 1911, allorché la città venne scoperta da un esploratore inglese, padrone incontrastate - , terremoti, non all’opera dell’uomo.
Machu Picchu è come la si vede in cartoline e documentari, lo spettacolo è emozionante, l’ingegnosità degli Inca risalta nelle costruzioni fatte di blocchi di pietra, nei templi orientati in una direzione ben precisa a testimoniare conoscenze astronomiche rilevanti, nel dare ad ogni elemento una funzione specifica.
Dall’alto del Huayna Picchu la vista è ancor più sfolgorante anche quando, dopo quarantacinque minuti di salita su gradoni costruiti dagli stessi Inca, il cielo si rannuvola e siamo indotti a scendere rapidamente sotto una pioggerellina che rende ulteriormente complicata la discesa.
I gradoni in pietra sono scivolosi, la pendenza è spaventosa, non vi è nulla a cui aggrapparsi, le funi sono sporadiche, una caduta non lascerebbe scampo, ho paura del vuoto, ho bisogno di supporto, me lo concede Sabrina miss padania, standomi davanti ed impedendomi la vista delle ripidità che abbiamo dinnanzi.
E’ più difficile scendere che salire, tanto che all’uscita si firma il registro sul quale erano stati segnati all’ingresso i dati di tutti i visitatori che superavano l’ingresso, per verificare che nessuno sia andato disperso.
Benché il cielo sia piuttosto inclemente e nuvole minacciose si aggirino sulle nostre teste, passiamo il pomeriggio a vagare tra le rovine di questo posto magico e misterioso, in compagnia di giapponesi, americani, tedeschi, polacchi, qualche italiano.
Il gruppo si ricompone ad Aguas Calientes, ma siamo alla terza settimana di viaggio, comincia a farsi sentire la stanchezza, il nervosismo sale, la notizia che dovremo spendere oltre duecento dollari in più rispetto al preventivato genera ulteriore malumore, una squallida cena in un postaccio ad Ollantaytambo non ci aiuta ad andare a letto sereni, anche se Machu Picchu resterà con noi, grazie anche alle centinaia di scatti con cui ognuno ha cercato di immortalare questo luogo così ricco di fascino e mistero.

Martedì 23 Giugno

Cusco.
La mattinata è dedicata alla visita del sito archeologico di Moray, terrazze destinate all’agricoltura, situate in un incavo del terreno, a creare un anfiteatro nel quale ognuno dei livelli concentrici che lo compongono è caratterizzato da un microclima differente, e dalla visita delle vasche di sale di Salinas.
Ad onor del vero non ho capito se anche qui c’entrino qualcosa - col sale, intendo - gli Inca, la Lonely Planet dice di sì, la guida locale sostiene che quest’opera ingegnosa è frutto dei giorni nostri.
Il luogo è fuori dell’ordinario, siamo ad oltre tremila metri e fa un certo effetto vedere come un modesto ruscello di montagna produca sale, un vero spettacolo le vasche che hanno colorazioni variegate, dal bianco al caffelatte, a seconda di come ognuna di esse è trattata.
Senza indugio si va a Chinchero, un paesino a più di 3.700 di altitudine, la cui notorietà è dovuta, oltre che a terrazzamenti ad uso agricolo di epoca incaica, alla presenza di una chiesa coloniale, edificata sulle fondamenta di costruzioni Inca, con interni decorati con motivi religiosi e floreali.
A Chinchero non si pranza, perché qui non vi è quasi più nessuno, sono tutti scesi a Cusco, dove domani si celebra l’Inti Raymi, la Festa del Sole, non ci rimane che accettare il cholco con formaggio, da sgranocchiare sulla piazza principale, tra venditrici di maglioni, tovaglie, i consueti prodotti dell’artigianato locale.
La sera a Cusco finalmente ci si può lanciare su quelle tipiche vivande delle feste di paese, spiedini di carne cotta agli angoli delle strade, salsicce infilzate su stecchini enormi, panini con pollo alla piastra, con insalata di cipolle, - tradizione locale - accompagnate da birra che scorre a fiumi.
A qualcuno viene in mente l’Oktoberfest di Monaco di Baviera, ma qui, a queste latitudini, ogni cosa è più casereccia.
Cusco ci piace.

Mercoledì 24 Giugno

La festa del Sole.
Cusco è la capitale dell’impero Inca, che ebbe il suo centro in questa bella e vivace città dove oggi si festeggia l’Inti Raymi, la Festa del Sole.
Già ieri la città brulicava di gente, la sfilata di gruppi in rappresentanza di paesi ed associazioni di ogni genere della provincia cuzquena, con canti e balli, ha rappresentato l’anteprima della manifestazione odierna, che conclude la settimana di feste, l’Inti Raymi.
Una moltitudine di gente si affolla sulla spianata da dove partirà il corteo di figuranti in costume che, chiusa dal re Inca, percorrerà le strade del centro, per raggiungere Saqsaywaman, l’imponente rovina all’interno della quale si tiene la cerimonia in onore del dio Sole, un tempo culminante nel sacrificio di un lama.
Turisti, ma anche locali, peruviani provenienti da altre città, giovani ed anziani, donne e uomini, bambini tenuti in braccio dalle madri, la rappresentazione in costume è seguita da gente che si accalca nei punti dove transita il corteo, sotto i portici della Plaza de Armas la ressa è tale da rendere difficile ogni spostamento, la nostra fortuna è che, anche se non si è in prima fila, i peruviani sono in genere così piccoli che la visuale è accettabile comunque.
Il corteo sfila davanti a noi e sale verso la collina che sovrasta Cusco, famiglie intere si ammassano sui bus navetta che portano su, in un affollamento incredibile, bambini e borse vengono fatti salire attraverso i finestrini, la gente si spintona e resta incastrata l’uno con l’altro, rinuncio a salirci su.
Si scoprirà poi che la parte finale della festa è ad uso dei turisti, quelli disposti a spendere, per vedere una rappresentazione anche settanta-novanta dollari - il prezzo delle sedie antistanti l’area - mentre i locali affollano una zona poco distante a farci una scampagnata fuori porta.
E’ piuttosto esasperante questo ricorrente abuso ai danni del viaggiatore, costretto a sborsare fior di quattrini, in misura via via crescente col passare degli anni, sia da operatori turistici e da albergatori che da amministrazioni pubbliche, che, tutti, approfittano della loro posizione per speculare in maniera indegna.
Una politica miope, che a lungo andare ridurrà il numero di chi sarà disposto a spendere le assurde cifre richieste per accedere a luoghi la cui indubbia bellezza non può tuttavia essere negata.
Ci si ritrova tutti a cena la sera, dopo aver vagabondato tra uno spiedino e un piatto di riso, un negozio di souvenir e il museo della storia inca, tra un malessere e l’altro, mentre si avvicina la fine del lungo soggiorno a Cusco e in Perù.

Giovedì 25 Giugno

Ultimi ’sassi’.
La definizione appioppata alle rovine che abbiamo visto in queste settimane calza a pennello per gli ultimi siti che vediamo oggi.
Saqsaywaman, Q’enqo, Puka Pukara, Tambomachay, questi i nomi dei siti posti sulle montagne che circondano Cusco.
Siamo ormai saturi, l’assenza di una guida che stimoli l’interesse non facilita il compito, parte del gruppo fa la visita spostandosi tra le varie aree a cavallo (di ronzini mezzi rimbambiti e zozzi), il pomeriggio a zonzo tra le viuzze della parte alta di Cusco o seduti sugli scalini sul sagrato della cattedrale consente di apprezzare la vita della città, non vi è più nulla da visitare, a cena un assaggio di cuy, il porcellino d’India cotto sul fuoco, piatto tradizionale di queste parti, un brindisi col pisco sour, le valigie da chiudere e l’attesa vana di Alan, il nostro compagno di stanza che si attarda in giro per discoteche, rientrando poco prima che alle cinque suoni la sveglia.

26 e 27 Giugno

Lima e Atlanta.
Il lungo viaggio per tornare a casa parte da Cusco alle 7,40, con un volo interno che in poco più di un’ora ci porta alla capitale Lima.
Ci eravamo lasciati alle spalle una città grigia e uggiosa, la ritroviamo ugualmente grigia tre settimane dopo, nulla è cambiato, i giornali titolano a caratteri cubitali sulla morte di Michael Jackson e dell’attrice Farrah-Fawcett, ma danno particolare rilievo all’assassinio di Alicia Delgado, la ’principessa del folklore’ peruviano, pugnalata e strangolata nella sua abitazione, la bandiera nazionale è a mezz’asta sugli edifici pubblici.
Dedichiamo le ultime ore all’acquisto degli ultimi souvenir per consumare gli ultimi spiccioli che ci sono rimasti in tasca in soles, la valuta locale.
La sera code in aeroporto, due ore per check-in e controlli all’ingresso, queste formalità sono un’ossessione, sull’aereo una bella dormita attenua il peso della durata del volo e a mattina appena fatta siamo ad Atlanta, Georgia, United States.
Controlli su controlli - qui ti controllano anche all’uscita dall’aeroporto - centinaia di militari reduci da qualche missione a far danni in qualche sfortunato paese (forse le truppe ritirate dall’Iraq) a ricordarci su cosa questa nazione basa la propria predominanza sul mondo, poliziotte grassone dalla voce chioccia a darci un benvenuto di cui volentieri avrei fatto a meno - il passaggio qui è reso obbligato dall’organizzazione di Avventure nel Mondo - poi si va a vedere Atlanta, approfittando delle lunghe ore di attesa prima del volo per l’Italia, ben dieci ore.
Atlanta: il posto più brutto e inospitale del mondo.
Ci vuole una vita per uscire all’aria aperta, poi grattacieli, il museo della Coca Cola, che per entrarci ci vogliono quindici dollari - naturalmente non ci entriamo - , la coda all’ingresso, una quantità spaventosa di persone obese, bianchi e neri obesi senza distinzione di razza, giovani in buona parte, i bianchi sono più pallidi di un foglio di carta.
C’è un caldo afoso che fa rimpiangere il freddo pungente delle Ande sudamericane, non c’è nulla che valga la pena vedere nella zona indicata come centrale, il caldo è torrido, ci separiamo, resto ad aspettare, mi siedo su un gradone nei pressi dell’ingresso di Marta, la metropolitana della città, una poliziotta grassona, nera, mi intima di alzarmi, mi siedo a terra in un altro angolo, dopo qualche minuto la solita cicciona tracotante mi ordina di andarmene anche da lì e, visto che fingo di non capire, mi mostra minacciosa le manette.
Grave crimine sedersi a terra - non c’è ombra di panchine o simili - nella patria della libertà. . .
Disperso, torno all’aeroporto da solo, attingendo alle nozioni di inglese maccheronico che trovo in qualche angolo di me e alle sei di sera sono finalmente sull’aereo per Milano.

Arrivederci Perù, Bolivia, Cile! Addio, spero, USA!
Carlo .

[Carlo ha partecipato anche ad un lungo tragitto motociclistico da Cuneo a Samarcanda e ha documentato un interessante viaggio in Tanzania.]

cosafare e cosavedere